Cinema – Due opere antiborghesi e somme
(di Carlo Di Stanislao) – Vi sono registi che non invecchiano, non mostrano la corda ed anzi migliorano con gli anni, come il buon vino. Due di questi sono, fuor di ogni dubbio, Roman Polanski e Pedro Almodovar, certamente autori diversi, ma riuniti nel novero di quelli che hanno ed ancora fanno, la storia del cinema. A Venezia “Carnage”, ultima fatica del “ristretto” (agli arresti domiciliari) Polanski, è un’operazione claustrofobica, in uno spazio confinato, con impercettibili movimenti di macchina ed una capacità spaziale inusitata, che mette a nudo lo sbando morale e gli infiniti vizi di una borghesia che non impara a migliorare dai suoi errori, anzi. Il film è una lucida follia al fulmicotone, orchestrata da protagonisti più che perfetti, sfaccettati e a un passo dalla psicosi, capaci di affondare il colpo e stendersi reciprocamente al tappeto a colpi di rasoiate e risate. Una sciarada sul “Dio del massacro” (o della carneficina, per essere più fedeli al titolo originale), che mette in mostra tutto ciò che contraddistingue l’animo umano, capace di godere delle sofferenze altrui, in un gioco al massacro senza fine, né esclusione di colpi. Adattamento cinematografico di “Le dieu du carnage”, premiatissima piéce teatrale del 2006 di Yasmina Reza, “Carnage” è un crescendo di rabbia e rancori mal celati, vissuto all’ombra di un tranquillo appartamento newyorkese, dove due coppie di genitori formate dai coniugi Penelope e Michael Longstreet (la Foster e Reilly) e Nancy e Alan Cowan (la Winslet e Waltz), s’incontrano per discutere dei propri figli, coinvolti in una rissa costata al piccolo di casa Longstreet due denti e diversi segni sul volto. L’intento di far incontrare i due ragazzini per risolvere in maniera civile il diverbio, sfuma in un batter d’occhio ed anzi gli adulti finiscono per comportarsi peggio dei figli, attaccando reciprocamente le altrui capacità genitoriali, per poi esplodere definitivamente una reciproca scarnifazione, fra dramma ed ironia, in cui tutti sono contro tutti ed emergono le insoddisfazioni e le problematiche dei rispettivi matrimoni. Gli attori sono tutti bravi, ma soprattutto le due donne (Jodie Foster e Kate Winslet) appaiono strepitose. Polanski si vendica a suo modo contro una nazione puritana, rappresentando un salotto della sua buona borghesia, piena di pruderie morali, trasformato in una morsa stringente fatta di dialoghi serrati, sguardi cattivi, battute pungenti, false maniere; che diventa, grazie al montaggio, qualcosa di terribilmente palpabile, una sorta di caleidoscopio dell’orrore in cui ciò che doveva essere riappacificato (un banale litigio tra i figli di due coppie) diventa motivo scatenante di rabbia repressa e violenza sottaciuta. Tutta l’azione viene così accelerata, rallentata, ampliata, ristretta, capovolta, che lo spettatore resta disorientato e non può che lasciarsi andare a questo continuo, sublime, rutilante, gioco sado-masochistico, magistralmente reso “fisico” da un poker di attori veramente in forma. Il film, nelle sale da cinque giorni, è uno dei migliori del grande Polanski. Esce invece oggi “La pelle che abito”, ennesima fatica di Pedro Almodovar, presentato a Cannes a maggio scorso e già definito una storia d’amore ma senza vera passione, un film horror raccontato senza orrori, una vendetta mostruosa senza mostruosità. Come per tutta la sua produzione, ancora una volta Almodovar produce un oggetto che non sai bene da che parte prendere, tanto sembra negare ogni possibile interpretazione: come film d’autore ti sembra lontanissimo dal calore e dalla passione delle sue opere precedenti (anche se non è difficile ritrovare i suoi temi: l’amore come possesso, la confusione tra i sessi, l’occhio – umano ed elettronico – come strumento di comunicazione, il passato che ritorna) e come film di genere è troppo controllato ed elegante per aver quella capacità di coinvolgimento che richiederebbe. Eppure si tratta di un capolavoro, volto a raccontare, ancora una volta, le complicate pieghe e gli anfratti insidiosi dell’animo umano. Un chirurgo plastico di fama, il professor Robert Ledgard (Banderas, torna a interpretare un film di Almodóvar dopo ventuno anni, dai tempi di Légami!), continua a partecipare a incontri e seminari ma ha abbandonato la professione attiva e tiene segregata in casa, nella sua splendida villa isolata e supertecnologica, una bellissima giovane, Vera (Elena Anaya). Chiusa in una stanza, vestita di una strana tuta talmente aderente da sembrare una seconda pelle, questa “prigioniera” passa il tempo realizzando strani pupazzi ricoperti di pezzi di stoffa (come certe opere di Louise Bourgeois), esercitandosi nello yoga e comunicando – via interfono – con Marilia (Marisa Paredes), la governante. Nel suo grande, inestimabile passato, In passato Almodóvar aveva popolato i suoi film di personaggi ai limiti del folclore, colorati e sorprendenti, che però rispondevano a una logica precisa: distruggevano le convenzioni “borghesi” (o presunte tali) dello spettatore per trascinarlo in un mondo tutto da scoprire, dove le regole del buon gusto e della compostezza svanivano come per incanto. Anche qui Robert Ledgard agisce secondo una logica non certo “convenzionale” – vuole realizzare la più feroce delle vendette – ma il regista non sta mai dalla sua parte o da quelle delle vittime (e di conseguenza nemmeno lo spettatore può farlo). E’ questa la novità di autore che ora diviene sguardo etico e neutro, morale senza alcun preconcetto, con una scrittura incredibile: la macchina da presa si limita a riprendere tutto senza farsi mai coinvolgere, fredda e razionale. Come l’occhio della telecamera che spia Vera tenuta prigioniera e appiattisce nel suo bianco e nero pixellato le forme morbide e delicate della ragazza. Cose che si inscrivono nella coscienza, che restano nell’immaginario di ogni spettatore. Una riflessione finale sull’idea comune dei due film, che si inscrive nella celebra frase di Hobbes, che viene da Plauto e che fu usata, in senso politico da Gramsci. L’uomo è davvero il lupo degli uomini, alla ricerca di autoaffermazione, alimentata da uno smisurato egoismo. Nel mondo animale e vegetale, ci dicono etologi e botanici, non esiste, almeno fino a prova contraria, la coscienza di sé. Molti animali vivono in rozze strutture sociali, cooperando per il bene dell’intera specie a cui appartengono (e della prole in generale), ma non hanno la consapevolezza della propria individualità, dunque agiscono d’istinto e senza il timore o la vergogna di nuocere ad altri. Vince l’animale più forte o l’insetto più resistente o la pianta più tenace e invadente. Tutto questo a discapito di qualsiasi altra forma di vita più debole. E in questo contesto persino il cannibalismo è giustificato. Ma noi uomini, con coscienza di noi stessi, dovremmo essere diversi, adottando senza riserve serve o debolezze la grandezza di questa consapevolezza etica, perché in essa non sono racchiusi solamente dei doveri e delle rinunce, ma ci sono i più nobili e appaganti sentimenti umanitari, quelli che ci fanno stare realmente in pace con la nostra coscienza. Ed è questa non pace in noi e nelle nostre coscienze il tema, trattato diversamente, di questi due sommi, ispiratissimi film.
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