I premi a Venezia con digressioni
(di Carlo Di Stanislao) – Anche se mi sono preso una pausa di 36 ore per redigere questo commento, ho capito subito, dalle prime indiscrezione sui premi, sabato attorno alle 19, che la 68° edizione del Festival del Cinema di Venezia è da considerarsi memorabile sino in fondo. Ineccepibili i due Leoni principali: quello d’oro a “Faust” di Sokurov e quello d’argento a Shangjun Cai per il film “Ren Shan Ren Hai” (People Mountain People Sea), due film complessi e dal forte impianto narrativo, sviluppato con forza e poesia, con momenti che già entrano nella storia della “settima arte”. Annunciato il premio Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Michael Fassbender, protagonista dalla straordinaria fisicità” nel film inglese “ Shame” di Steve McQueen, mentre quello per la migliore interpretazione femminile a Deanie Yip per il bellisimo “Tao Jie” (A Simple Life) di Ann Hui era davvero dovuto. I critici nostrani si sono meravigliati, non capisco il perché, per il premio speciale della giuria (presieduta da Darren Aronofsky e composta da Eija-Liisa Ahtila, David Byrne, Todd Haynes, Mario Martone, Alba Rohrwacher, André Téchiné) a “Terraferma” di Crialese: un affresco pieno di pathos ed ispirazione, con fotografia superba e superba interpretazione, sul problema della emigrazione, raccontato con garbo, piglio e grande forza espressiva, da uno dei talenti più autentici del nostro cinema attuale, già Leone d’Argento per “Nuovomondo” nel 2006. Tutti premi giusti e sacrosanti, anche se alla stampa di destra (Libero in testa), non sono piaciuti (e vorrei ben vedere), dicendo che ha trionfato il buonismo melenso e che a metà della cerimonia di premiazione sembrava di essere ad un galà della Croce Rossa. Assolutamente giusti, infatti, accurati e molto ben scelti, in una edizione molto ricca e stimolante, anche i premi minori: quello per la sceneggiatura ad “Alpis” di Yorgos Lanthimo; il Mastroianni per l’attore emergente a Shòta Sometani e Fumi Nikaido protagonisti di “Himizu” di Sion Sono, pellicola distribuita da Procacci dedicata al dopo-tsunami; l’Osella per la fotografia a a Robbie Ryan per il film “Wuthering Heights” di Andrea Arnold. La vera sorpresa, per m,e, il “premio al futuro”, con la giuria, composta da Carlo Mazzacurati (Presidente), Aleksei Fedorchenko, Fred Roos, Charles Tesson, Serra Yilma, che ha decretato al’’unanimità di assegnare i 100.000 euro di speranza, al film “La-bas” di Guido Lombardi: film-maker napoletano di 36 anni, sceneggiatore, due volte vincitore del Premio Solinas, regista di backstage e documentari, che ha vinto con una storia dedicata alla strage di Castel Volturno del 2008, con il protagonista, Yssouf, un giovane immigrato, che ha deciso, la stessa sera della strage, di chiudere i conti con suo zio Moses, l’uomo che lo ha convinto a venire in Italia, promettendogli un futuro da onesto artigiano e trasformandolo invece nel cinico gestore di un giro milionario di cocaina. Yssouf non vuol finire sotto il piombo del rivale ma ben più potente clan dei nigeriani. Moses vuole invece gareggiare con la vita fino alla fine ma senza perdere son petit, il nipote che ama e per cui ha tanto investito. Invischiati nelle loro storie, un amico, Germain, finito per caso proprio nel luogo della strage; una ragazza dalla voce d’angelo, Asetù, che quella stessa sera canterà in pubblico una canzone di Miriam Makeba; una prostituta nigeriana, Suad, che Yssouf sogna di riscattare dai suoi padroni. Il film, che dico la verità mi erta sfuggitto rispetto ai miei “favoriti” “Ruggine” e “Cavalli”, è invece un convincente affresco di un universo geografico e valoriale in cui la dignità fatica a respirare, soffocata dalla ricerca assoluta del successo economico, un film la cui etica è quella di mostrare come ogni percorso pedagogico abbia bisogno di un’anima razionale, che indichi una via lungo cui incamminarsi. Vale la pena, prima di ogni altra cosa, notare qui, come ha fatto su La Repubblica Ilvo Diamanti, che il cinema italiano a questa Venezia, non solo si è mostrato vitale, in ripresa e pieno di risorse, ma sembra aver creato un genere nuovo: quello dei migranti. l film di Lombardi: le drammatiche storie di Castel Volturno, del 2008. Ma le opere presentate a Venezia da registi italiani, sull’argomento, sono molto numerose. In tutte le sezioni. Oltre una decina. Ne citiamo solo alcune. “Cose dell’altro mondo” di Francesco Patierno, che ipotizza la (disastrosa) scomparsa degli immigrati in una zona del Nordest. E ancora: “Storie di schiavitù” di Barbara Cupisti, “Io sono Li”, di Andrea Segre (fra gli interpreti: Marco Paolini), “Villaggio di Cartone”, scritto e diretto da un maestro: Ermanno Olmi. Fino a “L’ultimo terrestre”, di Gipi, che narra dell’arrivo degli alieni fra noi. Dove gli alieni sono “gli altri, che evidenziano la nostra vulnerabilità. Il nostro sentimento di perifericità”. Le Mode al fattto ha dedicato un ampio inserto, in cui due grandi firme (Jacques Mandelbaun e Philippe Ridet), scrivo esplicitamente che: “è difficile, se non impossibile, trovare, in Europa – e altrove – un’attenzione tanto acuta – quasi ossessiva – come quella espressa verso gli stranieri dal Cinema italiano”, segno di un diffuso disagio, in un paese che si professa civile, nei confronti disagio di un fenomeno giunto al’improvviso e l’immigrazione è cresciuta, in poco più di dieci anni, del 1000%. Ed il cinema, come sempre quando fa il suo dovere, ha saputo cogliere e riversare in immagini questo disagio, un disagio che racconta la sindrome dell’accerchiamento che oggi si sta diffondendo nel Paese, una sindrome estesa e indefinita, che ci fa sentire minacciati dall’esterno, da ogni fronte e da ogni direzione. Dalle rivolte e dalle guerre che avvampano nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Ma anche dall’Europa e, soprattutto, dalla Germania. Che non credono nella nostra economia, ma soprattutto, nel nostro sistema politico. E minacciano di non coprire il nostro debito pubblico, di non acquistare i nostri titoli di Stato. Ci sentiamo minacciati dalle Borse e dai Mercati, dallo Spread e da S&P. Noi, che abbiamo coltivato, a lungo, un’identità nazionale fondata sull’arte di arrangiarsi, sulla capacità di adattarsi e di reagire. Noi che ci siamo considerati una società “vitale” – nonostante il governo, nonostante lo Stato. Oggi ci scopriamo spaesati. Orfani di un governo che sappia governare e di uno Stato in cui aver fiducia. Così ci sentiamo stranieri a casa nostra. Da ciò la ragione non solo di tanti film italiani sugli immigrati quest’anno, a Venezia, ma anche della’editoriale di De Bortoli sul Corriere di ieri, dove si chiamava l’Italia ad uno scatto di orgoglio e di dignità, perché ha risorse e forza per farcela da sola e non continuare ad elemosinare aiuti dalla Bce e da Paesi, come la Germania, che mai ci hanno davvero amato. Quello scatto d’orgoglio che traspare, fra le immagini, nei film di Crialese e Lombardo, ma anche in quelli dei Manetti brothers e di tante altre eccellenti pellicole presentate a Venezia. Un orgoglio che si fonda sulla nostra storia antica e più recente e su alcuni fatti concreti: avremo anche un debito pubblico fra i più alti del mondo, ma anche, abbiamo, oltre mille miliardi di beni dello stato poco o punto utilizzati ed un patrimonio di famiglie ed industrie di 8.600 miliardi di Euro, più del doppio di quegli stati che ora ci guardano accigliati e ci fanno la morale. Quello stesso orgoglio (dico di essere italiani), che traspare dai film italiani che andranno a Toronto (alla edizione 2011 appena aperta e che si concluderà il 18 settembre; una kermesse infinita con ben 360 film): “Le premier homme” (in prima mondiale), dal libro di Albert Camus, diretto da Gianni Amelio; il già richiamato film di Crialese; “Habemus Papam” di Nanni Moretti (apprezzatissimo a Cannes); “Il villaggio di cartone” di Ermanno Olmi (fuori concorso a Venezia); “Isole” di Stefano Chiantini (anch’esso in prima mondiale nella sezione Contemporary World Cinema) e “Giochi d’ estate” di Rolando Colla (prescelto per la sezione Discovery). Quello stesso orgoglio che sa di cultura e spessore, che si tedia di fronte alle stupidaggine e le complicazioni burocratiche da vuoto cerimoniale, che ha portato Alberto Arbasino, nel bel mezzo della cerimonia di premiazione, che pure lo riguardava come vincitore 2011, nell’ antica chiesa sconsacrata dei Santi Tommaso e Prospero accanto al medievale Palazzo Pretorio, duecento metri dalla casa natale del Boccaccio, ad andarsene sbattendo non solo metaforicamente la porta. È accaduto l’atro ieri durante la cerimonia finale di uno dei più prestigiosi premi della Toscana, durante una cerimonia, tra l’altro, speciale, perché quest’ anno “il Boccaccio” ha compiuto trent’ anni e poco prima, nella piazza della cittadina, era stato presentato in pompa magna il restauro della statua dedicata all’ autore del Decameron. Ma di stolttagini superficiali e tirate vuote e trite dopo un po’ Aerbasino non c’è l’ha fatta e raccolto l’orgoglio tutto italiano, a mandato tutti a quel paese. Qualche tempo fa Arbasino riscrisse “Fratelli d’Italia”, licenziato una prima volta lel 1963 e riscritto per intero quattro anni dopo. Ed anche il maestro di Arbasino, l’Ingegnere in blu Carlo Emilio Gadda, fu un grande riscrittore: il Pasticciaccio in volume (1957) è tutt’altra cosa rispetto alle anticipazioni pubblicate un decennio prima sulla rivista fiorentina “Letteratura”, con cambio di ambientazione, di personaggi, di tono generale, di interi capitoli. Ciò che resta invariata è la denuncia e l’orgoglio di essere italiano nel senso migliore del suo protagonista. Ed oggi, dopo Venezia 2011, recuperare questo orgoglio, nonostante tutto, diventa più agevole. Se è vero che noi siamo “maestri del ritocco” e del ripensamento (come dimostra il Vasco Rossi più recente, concentrato sulla “riscrittura classica”» di quel gioiello che è Albachiara in vista dello spettacolo di danza “L’altra metà del cielo”), poiché il rapporto diretto con il pubblico impone variazioni continue, anche se non tutti i ritorni sono magistrali, come le auto rielaborazioni di Paolo Conte in chiave orchestrale, questa capacità di revisione ci può tornare utile in questo momento in cui duttilità e fierezza possono fare resilienza e, soprattutto, differenza. E proprio perché orgogliosi di questa italianità duttile e colta, dobbiamo essere, oggi, anche dalla parte dei ricercatori di questo Paese, che ieri, a Piazza di Spagna, nel “giorno degli indignati”, abbandonato il classico corteo dagli slogan facili, hanno interpretato la tipica danza haka delle tribù Maori, per propiziare il futuro della ricerca, sia a Roma che nel resto della nazione, una nazione con molto futuro se saprà cederci ed investire. Già il 5 marzo 2007, in seno a un convegno ospitato nella sede centrale del Cnr a Roma, fu detto che o si comprende che la scienza è cultura e sulla cultura bisogni investire il massimo delle risorse o una nazione prima deperisce, poi muore. Già Benedetto Croce aveva detto che la la scienza “è un mondo di spettri dove l’anima sente l’aria della morte”. Ed è stato proprio questo retaggio mentale, questo considerare la scienza come una sorta di parte tecnica dell’animo umano, a far sì che oggi le pagine di cultura delle riviste ospitino solo notizie di musica, letteratura o teatro, riservando risicato spazio a quelle di scienza. “Eppure la scienza è la vera cultura perché è l’unica forma vera di conoscenza che cerca di rispondere alle immortali domande dell’uomo e che, poi, da luogo ad altri divertisment di tipo più astratto o creativo. Ma in Italia si investe circa l’1% del Pil in scienza, enormemente meno di Germania, Francia, Inghilterra e tutti gli altri paesi dell’area occidentale. Ma ciò che è ancora più grave, è segnalare che la scienza in Italia, e soprattutto nelle scuole italiane, è oggetto di apprendimento libresco, cartaceo, nozionistico; mentre ciò che servirebbe è invece cultura fattuale e teorica insieme, creando sinergie anche con le imprese, che sono a volte, nel loro interno, un accumulo di risorse tecnologiche e scientifiche, poco o punto utilizzate. A giugno 2010, contro i tagli del governo, scese in piazza la cultura, contro i tagli odiosi e barbari operati dal governo. Manifestazioni ve ne furono a Roma, Firenze, Napoli e Milano, ma non vi fu chi, orgogliosamente, riuscì a dire che, essendo italiano, sentiva il diritto alla cultura (scientifica ed umanistica), come inalienabile, necessario al suo essere come l’acqua. Hanno ragione Marco Sideri e Ferruccio De Bortoli, l’Italia può e deve operare uno scatto di orgoglio, consapevole che ha ancora una grande cultura, una grande capacità di studio e ricerca, per non parlare del made in Italy e dell’industria manifatturiera: la secondo per importanza nel mondo. L’Italia, pertanto, funestata da crisi economica ed inconsistenza politica, resta una grande nazione, con famiglie, imprese ed istituzioni possono realizzare la sfida di passare dall’orgoglio all’azione, contro i pregiudizi ma anche contro tutti gli errori effettivamente compiuti in questi ultimi anni. Ci sono naturalmente vari scettici, soprattutto stranieri come l’economista di ferro Jurgens Stark e lo storico inglese, autore di una Storia d’Italia di successo che ripercorre il cammino dal Risorgimento ad oggi, Mark Smith. Ma l’importante e che scettici non siamo noi, con le prove di fatto di opere come quelle di Venezia, di una operosità minuta e quotidiana che regge e va avanti comunque e nonostante tutto, con una ricerca senza fondi ma che nonostante tutto continua a raccogliere successi e riconoscimenti e con il fatto che non c’è mai stata un’asta dei nostri titoli di stato che sia andata deserta. Ora, con questo, non voglio dire che stiamo bene. So perfettamente che la nostra attuale classe dirigente è per lo più priva sia di orgoglio che di dignità e di cultura; ma voglio invece affermare che occorre (come suggeriscono i citati film italiani a Venezia), essere disposti a smetterla di considerarsi pedine impotenti di un gioco incomprensibile, per riappropriarci del nostro destino, per svegliarci dal torpore lamentoso degli schiavi e per lottare con orgoglio per quello in cui crediamo. Nulla, infatti, è inarrestabile, neanche il declino. Ci sarà un tempo per ricordarsi di aver avuto paura, ma non è questo il tempo: ora bisogna dare tutti qualcosa in più, amare questa comunità e portarla in salvo. Gramellini e De Bortoli vanno presi ad esempio, poiché hanno capito, pur da posizioni diverse, che è che è la totale perdita di senso di responsabilità, di motivazione, a mancare al possibile riscatto dell’Italia, al suo cambiamento di rotta e di marcia, alla costruzione di nuovi progetti e della capacità di intraprenderli. E questo lo hanno capito anche Crialese e gli altri. Come chiosa su La Presse Alessandro Falzano, acuto osservatore dei fenomeni italiani, l’Italia, però, non può cambiare se non cambiano coloro che ne hanno accompagnato il declino, indipendentemente sia stato artefice o semplice osservatore (è il tema di “Terraferma” ma anche di “La-bas”). Lo scatto d’orgoglio che chiedono Gramellini e De Bortoli ha bisogno di motivazioni, ha bisogno di una ricostruzione di identità, ha bisogno di una rivoluzione, naturalmente senza né sangue né violenze. Nessuno trova la forza per risalire dal burrone dove è intrappolato da una settimana solo perché sente passare un vecchio autobus in lontananza. I referenti attuali nella politica nazionale non hanno più, con misure diverse di colpa personale, la credibilità necessaria a proporre niente che somigli a un riscatto o una rivoluzione. Sono, nel migliore dei casi, un intralcio, che disillude ogni volontà e partecipazione degli italiani al solo sentirli nominare e promette il mantenimento dei meccanismi che ci hanno portato fin qui: qualcuno, con buone intenzioni, sarà al massimo capace di applicarli meglio, magro risultato. I rallegramenti dell’esserci tolti di torno questa maggioranza di mediocri dureranno poco, per quanto siamo gente che si accontenta. E chi si accontenta di sopravvivere, come “L’uomo di conseguenza” di Attilio Veraldi, non sarà mai capace di veri scatti d’orgoglio. il pio Rumor, L’irriducibile Fanfani, l’eterno Andreotti, l’enigmatico Moro, l’aggressivo De Mita, il monacale Berlinguer, l’ardimentoso Craxi, il tenace Almirante, l’ambizioso Spadolini, spazzati via L’alterigia dei ras locali. Il cancro della mafia. Le bombe del terrorismo. Il sequestro di Aldo Moro. Il ciclone della Loggia P2. La guerra fra comunisti e socialisti, sono stati sostituiti da figuri di basso profilo, interessati al proprio tornaconto, privi di spessore e, soprattutto, di orgoglio nazionale. mutamenti della scena politica italiana degli ultimi decenni non hanno riguardato soltanto il sistema elettorale, la crescita della personalizzazione, i partiti e i movimenti, ma anche lo stile di governo a tutti i livelli. Per dirla in sintesi, si è passati dalla prevalenza di un modello di government, centrato sul protagonismo degli attori pubblici e su una logica tendenzialmente top-down, alla diffusione di un modello di governance, in cui si sono fatte strada esperienze di concertazione e partenariato tra soggetti pubblici, privati e del terzo settore, con discrete aperture a una processualità bottomup. Il “nuovo” modello si è sviluppato per effetto di due brusche sollecitazioni, indotte, da un lato, dai trasferimenti vincolati dell’Unione Europea e, dall’altro, dalle crescenti debolezze finanziarie delle istituzioni pubbliche centrali e periferiche. Sul piano analitico, la governance è stata applicata ad ambiti macro, medio e micro. Se la letteratura descrittiva su queste tematiche tende ormai a essere più che abbondante, ciò che risulta essere ancora parzialmente sviluppata è l’analisi critica dei nodi delle stesse esperienze. E soprattutto, ciò che è carente, è una analisi dei contenuti storici e culturali che vi sono (o forse non vi sono affatto), dietro queste scelte. Nel Discorso sulle scienze e le arti, Rousseau sostenne che le arti e le scienze non avessero apportato benefici all’umanità, in quanto non erano state prodotte per rispondere alle necessità umane, bensì generate dall’orgoglio e dalla vanità. Inoltre le arti e le scienze creavano occasioni per l’ozio e il lusso, contribuendo così alla corruzione dell’uomo. Rousseau affermava che il progresso delle conoscenze avevano reso i governi maggiormente potenti, schiacciando così le libertà individuali. Concludeva quindi che il progresso materiale minacciasse la possibilità di costruire amicizie sincere, al cui posto subentravano gelosie, paure e sospetti. Di pare diverso fu Cesare Beccaria nel suo “Dei delitti e delle pene”, secondo cui sono proprio arte e scienze a libertare gli uomini e portarli verso una vera democrazia. E fu proprio questo libro di un orgoglioso italiano, ci ricordava in un suo memorabile pezzo del 2001, dopo le Torri Gemelle, Oriana Fallaci, che ispirò la prima e più profonda delle Costituzioni: quella americana, in cui, fra l’altro, si parla di “tutela dell’individuale felicità”. Non a caso furono italiani (Svevo e Puirandello), coloro che molto più e più fruttuosamente di coevi stranieri (James Joyce e Marcel Proust), intuirono il male dell’anima moderna, che nasce da una condizione di alienazione che ci rende incapaci di avviare un rapporto operoso con la realtà che ci circonda, a meno di non riuscire, con orgoglio, a recuperare storia e retaggio. L’unica alternativa, sul piano sia individuale che collettivo, la sola salvezza per il singolo e la società, è nell’acquisizione della coscienza, nella consapevolezza delle menzogne e degli alibi con i quali mascheriamo le nostre fughe dalla realtà e cerchiamo di scaricare sugli altri comportamenti che in verità sono anche nostri. Di questa necessità di autocoscienza, riemersone ed orgoglio, ci ha parlato, da Venezia, il cinema italiano.
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