In morte di un galantuomo sportivo

(di G.Col.) – Gildino De Felice era un galantuomo sportivo. Una rara avis, un misto di ruvidità, generosità, onestà, aquilanità, aggressività (documentata quindi temibile), impulsività. Chi scrive lo ha conosciuto, grazie ad un comune indimenticabile amico, Paolo Olivieri, in età giovanile, quindi tra eccessi, scapigliature, cazzate tipiche dei vent’anni, e anche urgenze di ogni studente-giornalistello squattrinato. Gildino, uomo di mondo, capiva e sapeva dare una mano, magari offrendo lavoretti da autista (su una scassata antica Lancia Appia) per portare i suoi atleti Libertas da un capo all’altro dell’Italia. Era un buono, anche se sembrava un cattivo. Ma era uno che con il suo volto lungo, gli occhi tondi, il gran ciuffo, insegnava autorevolmente a campare. E a farlo come si deve. Con dignità. Chi scrive e lo sport non hanno mai avuto contiguità (tranne che per il rugby, praticato a tempo perso e seguito qua e là), quindi l’intesa con Gildino era puramente umana: in pratica, una lezione di come si dovrebbe essere. Puliti. E, nel suo caso, rapiti da un amore totale per lo sport. Tutte cose che oggi fanno ridere, risultano incomprensibili, in una sociètà in cui lo sport è inquinato come i fondali di fronte a New York, o i canali di Venezia. A proposito di Venezia, una volta Gildino lì offrì ai suoi ragazzi e al suo autista una cena di risotto all’inchiostro di seppia e frutti di mare, sapori irripetibili. Un ricordo piacevole. Gildino, eri qualcuno, e L’Aquila ha perso un uomo valido. Che da tempo, amareggiato, l’aveva lasciata perdersi nel suo liquame morale. Era scritto, è inevitabile, ma dà dolore.