Interviste – Una striscia tra l’Abruzzo e il Libano, la “Linea di Pace”
(di Cristina Mosca) – “Un milione e mezzo di persone vivono nella più grande prigione
a cielo aperto del mondo” (Vittorio Arrigoni)
La nuova violazione della tregua tra israeliani e palestinesi che dieci giorni fa ha fatto rimbalzare nelle cronache estere il nome della Striscia di Gaza ci ha ricordato che esiste in Abruzzo un’associazione culturale molto impegnata su quel fronte: Cam Lecce e Jörg Grünert di “Deposito dei Segni” trasformano le pratiche teatrali in trampolini per la risoluzione dei conflitti e le abilità relazionali, e da anni si recano in Libano di persona per avviare donne e aspiranti operatori sociali verso questa strada, in appositi workshop estivi. Nel progetto “La linea di pace”, inoltre, lavorano sodo per sensibilizzare gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado e delle università sui problemi della pace e sui diritti umani, a partire dalla condizione dei profughi palestinesi.
Cosa accade sulla Striscia di Gaza?
—«La Striscia di Gaza è lunga 40km e larga 10km, per una superficie di 360 km²: è assediata militarmente e sottoposta ad embargo totale dal 2006, vive una condizione di disastro umanitario in cui vistosamente sono violati: il diritto a condizioni di vita dignitose, il diritto alla salute e all’educazione, i diritti sociali ed economici. Inoltre dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 ha subito una ennesima invasione israeliana che con l’operazione Piombo Fuso ha prodotto circa 1.300 morti. Alla domanda “Che cosa accade?” si può rispondere solo con un’altra domanda: Quando la comunità internazionale deciderà di sostenere i diritti declamati nella Carta Universale dei Diritti Umani per restituire i diritti naturali alla popolazione palestinese?»
Cosa avete riscontrato in Libano?
«Il Libano è una Repubblica in cui il confessionalismo è molto presente e le varie appartenenze religiose determinano diritti, doveri e ruoli nella società; è una nazione dove ancora forti sono gli echi della guerra civile che si è protratta per 15 anni, dal 1975 al 1999; un Paese dove il 10% della popolazione è costituito dai rifugiati palestinesi che vivono nei campi profughi; e dove costante resta l’ostilità verso Israele, che in più momenti ha invaso militarmente il territorio libanese. La nostra esperienza didattico-educativa di teatro sociale, lì, se pur rivolta al territorio nazionale, è riferita soprattutto ai rifugiati palestinesi e alle collettività emarginate. Come tanti altri interventi umanitari, miriamo al mantenimento di uno equilibrio psico-sociale delle collettività sottoposte a traumi di guerra, alla povertà, alla disoccupazione e alla miseria. Operiamo per motivare partecipazione attiva, affinché siano le collettività stesse a progettare cambiamenti e percorsi di riconciliazione e di dialogo tra loro. Il fatto è che comunque le problematiche sistemiche della composita società civile libanese potranno essere risolte solo attraverso l’applicazione delle leggi internazionali sui diritti umani che aspettano, disattese, di venire rispettate.
Come si può fare concretamente qualcosa anche dall’Abruzzo?
«Con la cultura! Promuovendo cultura, conoscenza, consapevolezza personale e collettiva. Solo sostenendo processi di conoscenza sulla storia, sulle culture e sulla memoria dei popoli si può motivare la liberazione dalle oppressioni. Sogniamo da sempre di riuscire a realizzare un progetto drammaturgico in cui giovani abruzzesi, palestinesi e libanesi, condividano emozioni e circostanze concrete, rafforzando l’interesse reciproco e la testimonianza. Il problema è che quando ci si esprime in merito ai territori occupati e a Gaza subentrano meccanismi che di solito non si innescano quando si parla di altre zone dove sono in corso conflitti globali. Criticare la colonizzazione effettuata sulla Palestina storica dal movimento sionista, e continuata dallo Stato di Israele, porta in genere ad essere additati come antisemiti (che per di più è un’espressione linguistica errata) o addirittura antiebrei, negazionisti dello sterminio… reazione che non si produce quando si denuncia per esempio la decennale condizione disastrosa dei profughi Sahrawi»
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