Teatro, ecco la “Torre del Bardo”
Pescara – Presentata oggi nello scenario del ponte del mare la sesta edizione de “La torre del Bardo”, rassegna dedicata al genio di William Shakespeare ideata da William Zola. Il festival fortemente voluto dall’amministrazione provinciale dall’assessore alla cultura Fabrizio Rapposelli, vanta anche la collaborazione del Teatro Stabile d’Abruzzo che nell’ambito del “Progetto Abruzzo” promuove le più vitali iniziative teatrali del nostro territorio.
Si va in scena a Villa Sabucchi, appena restituita alla gestione della LAAD la Lega Abruzzese Anti Droga, il 25, 26 e 28 agosto, ore 21.15, ingresso libero, con LA PAROLA DEL MERCANTE da “Il mercante di Venezia” di William Shakespeare e da “Gli italiani di Shakespeare” di Nicola Fano, regia William Zola, con Silvano Torrieri, Lea Del Greco, Giuseppe Pomponio, Tiziana Di Tonno, Umberto Marchesani, Matteo Febo, Fabio Fusco, Francesco Brescia, Patrizio Nicolini, Geoff Warren.
“Il primo pensiero-idea che mi ha ispirato la lettura dell’“originale” saggio di N. Fano “Gli italiani di Shakespeare”- spiega il regista William Zola- è stato quello di portare in scena (a più riprese) i personaggi, le figure, le storie, i tipi italiani che il grande bardo ha consegnato all’eternità in almeno quindici sue opere ufficiali.
Mi piace pensare con orgoglio a questa verità e come ben dice Fano, Shakespeare ha capito perfettamente com’eravamo e come siamo ancora oggi nel bene e nel male.
L’idea centrale del nostro lavoro teatrale vuole evidenziare questo aspetto storico-antropologico dove lo spettatore potrà godere, sorridere, dissentire, etc… su come il drammaturgo inglese ci ha visto e descritto, esaltandoci e denigrandoci, salvando e dando grande spessore alle donne italiane.
Nel mercante di Venezia sembrerebbero convivere e fronteggiarsi un mondo fatto di buoni e cattivi, ebrei e cristiani, colpevoli e innocenti. Ma non è così.
Alla fine dell’opera avvertiamo una netta sensazione che tutti i personaggi condividano lo stesso destino, il dolore di Shylock, la solitudine di Antonio, il mondo favolistico di Belmont concretamente schiacciato dalla dura realtà di Venezia città stato. Ne risulterà un’umanità fragile che invocherà la misericordia come dirà Porzia nel suo grande discorso e la condizione umana che prende coscienza di essere chiusa nella sua precarietà esistenziale.
Il mondo è un continuo divenire: se niente sta fermo mutano anche i moti dell’animo, e Shakespeare affonda le mani in una ricchezza di pensieri e di emozioni”.
“Come mai – si chiede Nicola Fano nel suo saggio – ci sono tanti italiani tra i più importanti personaggi di Shakespeare? A parte i grandi romani (Giulio Cesare, Bruto, Cassio, Marc’Antonio, Coriolano, Tito Andronico, ecc.), sono proprio alcune delle figure basilari del teatro shakespeariano ad essere italiani: da Iago alla bisbetica domata passando per dozzine di altri carismatici eroi del teatro di sempre. E poi, Venezia, Verona, Padova, Messina, Milano, Roma: c’è tutta una geografia italiana nel teatro di Shakespeare. Perché? Ragioni storiche e critiche ce ne sono molte: la moda del Rinascimento italiano nell’Inghilterra elisabettiana; il mito (negativo) di Machiavelli nella politica europea del Cinquecento; l’abbondanza di fonti dirette nella novellistica italiana per le opere di Shakespeare. Sono tutte ragioni criticamente plausibili e storicamente inoppugnabili, ma pure c’è qualcosa di più. C’è che Shakespeare ha saputo cogliere il carattere intimo di noi italiani: la nostra propensione secolare alla cialtroneria geniale, la nostra cieca fede nella furbizia servile o nella scaltrezza morale. Insomma: gli italiani di Shakespeare siamo noi.
Questo vuol dire due cose molto importanti. La prima è che noi italiani esistiamo – in quanto tali – da molto prima di quanto si pensi. Molto prima di quanto la storiografia politica ufficiale ci dica: non siamo nati con l’Unità del 1860 né con le repubbliche napoleoniche d’inizio Ottocento, ma eravamo italiani anche quando eravamo solo cittadini della Serenissima, o sudditi degli spagnoli, o devoti dei papi. Eravamo italiani già allora perché già allora avevamo un’identità riconoscibile: furbi come Pulcinella, scemi come Arlecchino, traffichini come Pantalone. Così ci dipinge Shakespeare a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento spulciando (ecco la seconda cosa importante) nel nostro immaginario. Nelle nostre novelle, nella nostra Commedia dell’Arte. Ossia: non solo avevamo un’identità, ma avevamo anche elaborato una sua rappresentazione critica e simbolica. Avevamo già riflettuto su noi stessi e sui nostri difetti, per intenderci. Shakespeare, con le sue tante opere italiane zeppe di servi, commercianti, chiacchieroni, imbroglioni italiani (ma anche donne virtuose italiane, bisogna ammetterlo) colse il nocciolo duro di quell’identità e ne fece uno stereotipo. Lo stesso che ancora ci accompagna nel bene e, soprattutto, nel male”.
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