Cadaveri in fondo
(di Carlo Di Stanislao) – Probabilmente erano stati imbarcati per primi sulla carretta del mare lunga 35 metri, stipati nella stiva che fungeva anche da sala macchine. L’unico accesso era una botola di appena 50 centimetri di larghezza; sicchè, quando i gas emessi dal motore hanno reso irrespirabile l’aria, i migranti hanno cercato di uscire, ma non c’era spazio per loro sul ponte. Sono morti in questo modo atroce in 25, trovati a bordo di un barcone diretto a Lampedusa. Due motovedette della Guardia Costiera e una della Finanza, avevano raggiunto l’imbarcazione dopo un sos a 35 miglia dalla costa la stavano scortando verso il porto. La macabra scoperta è avvenuta solo per caso, in seguito ad un guasto, quando mancava solo un miglio “terra ferma”. Nell’evacuare l’imbarcazione, durante l’ispezione, sono stati trovati i venticinque corpi senza vita, nella parte inferiore della barca. L’allarme era stato lanciato domenica sera e oggi la Procura della Repubblica di Agrigento ha aperto un’inchiesta sui decessi. I reati ipotizzati, al momento a carico di ignoti, sono omicidio come conseguenza di altro reato e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Titolare del fascicolo è il sostituto procuratore Giacomo Forte, che al momento ha disposto l’ispezione cadaverica ma non l’autopsia. Il barcone è stato posto sotto sequestro. La polizia ha cominciato gli interrogatori agli altri migranti, per cercare di ricostruire la vicenda. La Capitaneria di Porto ha tratto in salvo 271 persone, la cui provenienza non è stata ancora accertata, tra cui 36 donne e 21 bambini. A leggere i resoconti di questa ulteriore tragedia, viene in mente l’ultimo film di Crialese, quel “Terra ferma”, girato a Limosa e simbolo di approdo sicuro anche se straniero, minaccioso, diffidente. E viene in mente Timnit T., eritrea, 30 anni, giunta da noi due anni fa, sopravvissuta bevendo urina su un gommone alla deriva in quello che chiavamo “mare nostrun” e che ha veduto morire, una dopo l’altra, 70 persone accanto a lei. Timnit T. è il simbolo di chi ha sognato una vita migliore e ce l’ha fatta, così come i 25 cadaveri allineati oggi sul molo di Lampedusa, sono il simbolo tragico di un sogno tramutato in incubo mortale. La strage dei disperati, di coloro che fuggono dalla miseria, dalla guerra, dalla dittatura, dalla fame, per trovare la morte in un mare estraneo, quando gli aiuti sono quasi a portata di mano, continua devastante davanti alle coste del Nostro Paese. E allora ti viene da chiederti a che serve la politica, se non ad affrontare le emergenze, ad occuparsi delle persone oltreché dei denari, mentre siamo sempre più sbigottiti dall’inerzia che copre la sprezzante indifferenza. Oggi, siamo certi, vi saranno nuove dichiarazioni a cui, però, non seguiranno risoluzioni, si alzeranno parole di dolore e di sdegno, ma non si farà nulla per interrompere la tragedia. Sarà l’ora di nuove accuse e colpe da rinfacciarsi l’un l’altro, tra partiti e tra stati. Non si può morire così! Degli uomini non possono morire così! Invece si può eccome, come si poteva in Sudan, come si poteva nel Corno d’Africa, come si può in Afghanistan e non è meglio saltare su una mina o essere falciati da bombe amiche, che morire catapultati in mare o asfissiati in stive strapiene. Così, ancora, si parlerà di disagio, paura, sporcizia, a “spettacolo indegno” di clandestini e profughi in cerca di miglior fortuna in terra europea. E si dimenticherà, in breve, che la parola tragedia ha il significato vero, fatto di vittime, di lutti, di dolori insopportabili alla mente e al cuore.
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