Lezioni di cinema
L’Aquila – (di Carlo Di Stanislao) – Ripercorre la storia del cinema attraverso una serie di “esempi” diversi è lo scopo che si sono prefissi L’Associazione “L’Impronta” e l’Istituto Cinematografico dell’Aquila “La Lanterna Magica”, con la rassegna, di scena dal 25 luglio al 16 settembre, significativamente intitolata “L’invenzione, la storia e l’evoluzione della settima arte”, con location diverse (Piazza Duomo, Casa Onna, Casa del Volontariato e dell’Associazionismo) ed ingresso libero alla proiezione di film di autori che del cinema, appunto, hanno fatto la storia: Federico Fellini, Woody Allen, Quentin Tarantino, Mario Monicelli, Stanley Kubrick, Orson Welles ed altri ancora. L’iniziativa si inserisce nel programma del progetto “Un giovane giornalista per un grande futuro”, promosso dall’Impronta in collaborazione con l’Istituto Cinematografico “La Lanterna Magica”, cofinanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, avviato a novembre 2010, nato con l’obiettivo di permettere ai giovani, unici portatori del vero cambiamento, di riappropriarsi della loro vita, in un territorio funestato ed impoverito dopo il sisma del 6 aprile di due anni or sono. Il cinema delle origini, detto “delle attrazioni mostrative”, serviva per mostrare una storia che veniva necessariamente spiegata da un narratore o imbonitore presente in sala. Inoltre le storie erano spesso disorganizzate, anarchiche, più interessate a mostrare il movimento e gli effetti speciali che a narrare qualcosa. Solo il cinema inglese, legato alla tradizione del romanzo vittoriano, era più accurato nelle storie narrate, prive di salti temporali e di grosse incongruenze. Con i grandi autori soprattutto russi e statunitensi, il cinema diviene arte, cioè rappresentazione personale e morale di un certo modo di vedere le cose e diviene autorale, cioè capace di coraggiose scintille creative, con i film di Wells e con il nostro “neorealismo”, apripista della “Nouvelle Vague” e del cosiddetto “New American Cinema”. In questo modo, il cinema si fa sperimentale ed indipendente, con un chiaro, esplicito riferimento alla tradizione cinematografica delle avanguardie europea degli anni venti, ma anche alla nuova avanguardia formatasi negli Stati Uniti durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, per merito di autori come Maya Deren e Kenneth Anger. E oggi, in un periodo in cui sono molti a ritenere che, per molti versi, il cinema come forma d’arte non esista più, cioè non esista un cinema capace di raccontare la verità, ma anche di ucciderla, di cambiarla, perché come diceva Glauber Rocha, “il cinema è uno strumento per raccontare la realtà e cambiarla. La vita è una cosa seria, come il cinema del resto”, la rassegna aquilana si staglia come riflessione sul valore riflessivo e di crescita del linguaggio personale ed interpretativo attraverso lo schermo. E’ ovvio che uno dei compiti più importanti del cinema sia suscitare in chi guarda delle emozioni, dei pensieri, dei ragionamenti e non attraverso le forme normali e tradizionali, ma con abilità ancora più importanti. Oggi bisognerebbe cominciare a considerare il cinema così com’è: un’esigenza di raccontare il vero, allo stesso modo in cui ‘qualcuno’ mise una macchina da presa in mezzo ad una piazza o davanti ad una stazione per catturare ciò che accadeva. Recuperare quel cinema reale, che deve iniziare ad esistere nuovamente significa prendere la realtà e parlare al cuore e alla testa delle persone. Di questo ci parleranno le pellicole della rassegna, tutte introdotte da Pier Cesare Stagni, raffinato cultore di cinema e direttore artistico de La Lanterna Magica. La proposta è quella di far riflettere sulla paura dell’indipendenza e della rivoluzione, sul timore dei cambiamenti culturali e mediatici, per giungere a capire che ill valore di un film non si valuta solo dagli incassi. Insomma, come coloro che seguiranno la rassegna potranno vedere, ha ragione Pietro Montani che afferma che il cinema è come uno specchio: il mondo vi si trova semplicemente riflesso, ma è anche a è sogno ed invenzione. Effettivamente realismo e fantasia, nel cinema si toccano, fino a fondersi. Il cinema può mostrarci il riflesso di un mondo e, sempre nel cinema, si può ritrovare, comunque, l’immagine di un mondo credibile. Nessun’altra arte è stata mai legata alla realtà come il cinema. Certamente anche la pittura è legata alla realtà. Un romanzo riproduce, in un modo o nell’altro, un mondo riconoscibile, fatto di personaggi e delle loro storie. Il cinema, però, è legato alla realtà attraverso un legame speciale: la finzione. Anche la fotografia ha un rapporto con la realtà, ma meno vincolante del cinema. Per quanto il cinema possa discostarsi dalla realtà esso è, comunque, all’interno della finzione della realtà che deve muoversi. Del resto gli attori del cinema diventano modelli, perché possono confondersi più facilmente con le persone reali. La stessa cosa non potrebbe avvenire con gli attori di teatro che nella loro recitazione palesano una finzione scenica. Il massimo di realismo coincide, nel cinema, con il massimo di finzione. Più la macchina da presa viene annullata, più le realtà sembrano, come nel Neorealismo italiano, presentarsi al naturale e più, in effetti, si è realizzato l’artificio. La finzione della realtà è stata posta davanti ai nostri occhi in forma di immagine su grande schermo. Ma in fondo che cos’è la realtà? È la realtà rappresentata in un film come Fino alla fine del mondo di Wim Wenders o è quella di Rossellini? La realtà che diciamo essere quella vera non è anch’essa una rappresentazione, non è anch’essa il prodotto della nostra immaginazione, delle nostre aspettative, dei nostri stati d’animo? Ma, allora, le parti si invertono. Il cinema diventa una forma della realtà e la rappresentazione estetica del mondo può aggiungere degli aspetti nuovi al mondo che definiamo reale. Se considerassimo il cinema sostanzialmente come una inquadratura dell’immaginazione del regista, realizzata tramite i colori (o i grigi, nel bianco e nero) che egli ritenga più adatti alla sua interpretazione, dove andrebbe a finire il contatto fra l’immaginazione del regista e la realizzazione sulla pellicola e, soprattutto, dove si potrebbe situare il contatto fra l’immaginazione dell’autore, che è una dimensione così intima e personale, e quella del pubblico? Il problema se l’erano posto gli espressionisti tedeschi e se lo pone anche, a livello teorico, Zavattini, nel neorealismo italiano. In fondo Zavattini (ma anche Wells e Kubrick e persino Allen) dice che nella realtà vi sono tantissime cose, moltissimi fenomeni. Ma senza uno strumento che ci permetta di riconoscere e distinguere una cosa dall’altra e che ci consenta di porre in una nuova forma il complesso di cose e fenomeni che incontriamo, uno strumento come, ad esempio, la cornice che si è scelta per una storia, la realtà risulterebbe un magma indifferenziato. Zavattini ha realizzato dei film straordinari assieme a Vittorio de Sica. Uno di questi è stato Ladri di biciclette che è un film in cui la storia che viene raccontata da De Sica assieme a Zavattini risulta essere un racconto che non potrebbe fare a meno di raccogliere tutto quello che va raccogliendo nella città di Roma, colta nella propria immediatezza nel primo dopoguerra, in condizioni di straordinaria povertà, sottoposta alla ricostruzione. Tutti e due gli aspetti della realtà del racconto filmico, nell’economia di questo film, furono necessariamente rappresentati insieme. Questo, da un punto di vista metodologico, è la parte più difficile da realizzare ma, forse, nei risultati raggiunti finisce per essere anche il pregio più grande del racconto filmato cinematograficamente, nonché una delle più grandi qualità del cinema, a differenza di quanto accade con altri mezzi espressivi, che forse, potrebbe essere interessante toccare nella nostra trattazione. Come, per esempio, la televisione, o come la realtà virtuale, e la simulazione integrale, di cui oggi tanto si parla. Il cinema ha una qualità specifica, che è quella che, come vedete, sta tornando più volte nelle Vostre domande: l’esistenza in esso di un particolarissimo equilibrio tra ciò che viene inserito nello specchio e ciò che proviene direttamente dalla realtà e, fermo restando che non vi sono specchi senza realtà e che non c’è realtà senza specchi, possiamo trovare che il cinema è questo lavoro interno a questo spazio. Inoltre, come i grandi Autori dimostrano (e vedremo durante questo ciclo aquilano), il cinema ha oggi lo stesso ruolo che ebbe il teatro e la tragedia nella cultura greca. Soprattutto quando un film è autorale e contiene, oltre che valori estetici, anche etici e politici. In una piccola sequenza di un film del 1929, intitolato Il vecchio e il nuovo, sequenza che poi Eijzenstein ha citato spesso nelle sue opere successive, (Eijzenstein è morto nel ’48, ) ovvero una scena in cui il regista russo tentò di ottenere che lo spettatore venisse totalmente preso dall’immagine tramite una sequenza ricca di suspence; la finalità è quella di condurre lo spettatore ad una sorta di catarsi, che però fosse, al contempo, un’acquisizione cognitiva nuova. La storia narrata è quella di una comunità contadina, che dalla estrema povertà, attraverso la formazione di un kolkòs, (ovvero di una cooperativa agricola), cerca di progredire, di diventare più produttiva, di aumentare il proprio lavoro. La famosa sequenza rappresenta all’interno del film un momento molto importante da un punto di vista drammaturgico, perché i protagonisti devono scoprire se una macchina industriale che essi hanno comprato, ovvero una scrematrice, necessaria alla produzione del burro, possa funzionare o no. Sono dei contadini molto arretrati. Alcuni di loro sono molto diffidenti nei confronti del nuovo e vengono rappresentati attraverso le facce di vecchioni canuti ed altri particolari umani molto tipici. La sequenza viene costruita a poco a poco, per portarci, attraverso una estrema suspence, fino alla condizione finale, in cui il prodotto realizzato dal kolkòs, un latte ispessito, (che nella copia francese attualmente in circolazione viene presentato da una didascalia, – viene a rappresentare una vera e propria catarsi finale, ottenuta tramite una trasformazione fisica, (la figura del latte che cambia di condizione, diventando panna, e quindi crema) che, a sua volta, corrisponde ad una precisa trasformazione drammaturgica. Il regista ha lavorato con diversi criteri. Prima inquadrando le facce degli attori, poi abbandonando questo livello puramente rappresentativo della presenza dell’attore e lavorando con diversi tipi di materiali, di forme; per esempio, con la luce, con la velocità, con il filo del montaggio, con il rumore. Ed è questa la lezione, non solo estetica, ma etica, morale, interiorizzata poi da Pabts e da Hitchcock nella loro intera produzione. Insomma, ciò che i film della rassegna ci insegneranno è la capacità del cinema di far giungere ad una catarsi aristotelica, attraverso un racconto che, nei grandi, trova in se i problemi ed anche le soluzioni, persino quando sono aperte e sospese.
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