Riserva Borsacchio, storia e cultura


Roseto – Da Franco Sbrolla riceviamo: “Sul destino della Riserva naturale regionale guidata Borsacchio pendono, come spade di Damocle, ben tre proposte di legge che vorrebbero riperimetrarla o cancellarla.
Approssimandosi il dibattito presso la II Commissione regionale, ho ritenuto opportuno riepilogare alcune tematiche, tratte dall’e-book “La storia di Roseto e della Riserva naturale Borsacchio”, pubblicato nel portale http://www.francosbrolla-roseto.it
Seguirà la parte seconda riservata al paesaggio e all’ambiente.
La terza parte sarà dedicata ai reati perpetrati dentro la Riserva ed ai politici, di centrosinistra e di centrodestra, che hanno favorito, e continuano a favorire la Consorteria degli Affari.
Per quanto concerne l’area Tordino – Borsacchio, il ritrovamento dello splendido elmo a fasce del tipo Bandenhein, avvenuto nei pressi di Cologna nel 1896, e la forte presenza dei goti tra Abruzzo e Marche, inducono a ritenere, come ha scritto la prof.ssa Luisa Franchi dell’Orto, che la guerra con i Bizantini (535 – 553) si svolse anche nel nostro territorio.
I Goti, popolazione germanica, erano suddivisi in due rami, ostrogoti e visigoti. Gli Ostrogoti, dopo aver varcato le Alpi nel 489 d.C., occuparono tutta l’Italia e nel 535 cominciarono a scontrarsi con gli eserciti dell’imperatore Giustiniano, comandati dai generali Belisario e Narsete.
Come racconta lo storiografo Procopio di Cesarea, testimone oculare in quanto consigliere di Belisario, nel 537 i bizantini, dopo aver conquistato Roma e oltrepassato l’Appennino, devastarono il territorio dell’attuale Alba Adriatica e nel 538 dilagarono nel Piceno da Rimini fino a Ortona.
Quell’armatura, i manufatti in bronzo e rame ed i resti equini, recuperati in una specie di ripostiglio nel podere della famiglia Savini, sono verosimilmente da attribuire ad un cavaliere goto, che dovette abbandonare tutto per sfuggire alle schiere bizantine.
L’elmo ostrogoto di Cologna, impreziosito da una decorazione figurata con motivi di origine germanica, quali l’aquila, simboli cristiani, tralci di vite e archi sorretti da colonne, è tuttora conservato, ed esposto al pubblico, presso il Museum for Deutsche Geschchte di Berlino.
Ai disastri militari seguì una tremenda carestia e, come ha scritto Procopio: “Nel Piceno dicesi che non meno di 50.000 contadini morirono di fame”. Nella nostra Provincia, a testimoniare la presenza ostrogota sono anche gli altri cimeli rinvenuti a Civitella del Tronto e a Colle Amaro di Campli, a dimostrazione che nell’Abruzzo teramano si verificarono scontri, saccheggi e distruzioni.
Altre notizie sull’area Tordino – Borsacchio sono contenute in una lettera del vescovo aprutino monsignor Giulio Ricci, che nel 1590 così scriveva: “Giulia nuova è posta sopra il lito del Mare con poca distantia, ed è posseduta dall’Illustrissima ed Eccellentissima Casa d’Acquaviva d’Atri, con titolo di conte, et non ha altra Villa che Cologna, vicina al mare, tutta abitata in pagliari da Schiavoni, che nascendo ivi hanno la lingua nativa , et Italiana”.
Con il termine Schiavoni erano indicati gli slavi provenienti dalle coste orientali dell’Adriatico.
Nei primi anni del 1800, tutta l’area compresa tra il fiume Tordino ed il torrente Borsacchio era ancora amministrata dall’Università di Giulianova, mentre la zona sud, dal Borsacchio al fiume Vomano, era governata dall’Università di Montepagano.
Con varie leggi emanate nel 1806, e con quella del 24 gennaio 1807, la Riforma Amministrativa promossa dal re di Napoli Giuseppe Bonaparte, fratello del più famoso Napoleone, assegnava all’Università di Montepagano l’intera area Tordino – Borsacchio, allo scopo di favorire una migliore distribuzione territoriale.
Ne seguirono, da parte dei giuliesi che si sentivano pesantemente danneggiati, diversi ricorsi
portati avanti fino al termine del cosiddetto “decennio francese” (1806 – 1815).
Ciononostante, le scelte compiute in quegli anni non furono più cambiate e la fascia costiera
dell’area Tordino – Borsacchio entrò a far parte della già esistente Marina di Montepagano.
Tra le poche innovazioni che mutarono l’aspetto di quel tratto di costa, sono degne di menzione la Villa Devincenzi, l’attigua Cantina con la famosa botte da 1000 ettolitri, e il Parco a Mare.
Promotore fu il senatore Giuseppe Devincenzi, agronomo versatile, patriota e uomo politico, che operò unitamente a Silvio Spaventa, Camillo Benso conte di Cavour e Marco Minghetti, e fu più volte ministro durante il regno di Vittorio Emanuele II.
Nato a Notaresco in una famiglia borghese con vasti possedimenti, dalla Marina di Montepagano alle colline teramane, Giuseppe Devincenzi (1814 – 1903) studiò prima a Teramo e poi all’Università di Napoli. Seguì la scuola di lettere dello scrittore purista Basilio Puoti ed ebbe come compagni di studio Luigi Settembrini e Francesco De Sanctis. Attratto dall’ Agronomia, intervenne ai Congressi scientifici di Milano e Napoli e fu chiamato a far parte dell’Accademia delle Scienze.
Nel 1848, eletto deputato e segretario del Parlamento napoletano, manifestò idee liberali e fu uno dei firmatati della protesta per lo sgombero forzato della sede istituzionale di Monteoliveto, durante i sanguinosi moti popolari del 15 e 16 maggio contro il re Ferdinando II di Borbone.
Condannato dalla Corte criminale a 24 anni di ferri duri, andò esule in Francia, e poi in Inghilterra, dove conobbe e frequentò tre grandi uomini politici menzionati nell’Enciclopedia Europea, William Ewart Gladstone, Henry John Temple Palmerston e John Russel.
Tornò in Patria dopo 12 anni e collaborò con Cavour all’impresa napoletana. Portò la Commissione Abruzzese ad Ancona da Vittorio Emanuele II e accompagnò il re all’incontro di Teano con Giuseppe Garibaldi, facendo gli onori di casa quando il 16 ottobre 1860 il corteo reale, dopo il pernottamento a Giulianova, passò sotto l’arco di trionfo eretto vicino alla sua villa. Successivamente, a Napoli, gli furono assegnati i Dicasteri dell’Agricoltura e dei Lavori Pubblici. Deputato del Regno d’Italia nel 1861, fu Ministro dei Lavori Pubblici nel 1867 e dal 1871 al 1873.
Nominato Colonnello dello Stato Maggiore di Vittorio Emanuele II e Commissario Generale per l’Italia all’Esposizione Internazionale di Londra nel 1862, fu in seguito il fondatore e patrono del Regio Museo Industriale Italiano di Torino, organizzò il trasferimento dello Stato Sabaudo da Firenze a Roma nel 1871 e diede un forte impulso alla viabilità e alla bonifica delle zone paludose.
Da senatore, e poi da Ministro, iniziò a progettare una ferrovia che dalla Marina di Montepagano doveva raggiungere L’Aquila e Roma attraverso la vallata del Vomano, ma la netta opposizione di un altro parlamentare, Francesco Sebastiani di Montorio al Vomano, che era invece favorevole alla costruzione della Giulianova-Teramo-L’Aquila-Roma, lo indusse ad accantonare il progetto.
Di vasta cultura filosofica ed umanistica, la sua prima scienza fu però quella dei campi e scrisse diverse opere finalizzate al miglioramento dell’agricoltura. Politicamente Giuseppe Devincenzi si schierò con la Destra storica: seguace di Cavour e di Minghetti, ebbe come competitori nei Collegi di elezione il medico-patriota Ciro Romualdi e Giuseppe Garibaldi.
Nel 1873, in seguito ad un voto di sfiducia della Camera durante il dibattito sulla nuova linea ferrata Roma-Gaeta-Napoli, rassegnò le dimissioni da Ministro e si ritirò a vita privata, anche per seguire da vicino la nipote Maddalena, rimasta orfana nel 1872.
Depositati nella Villa Devincenzi, chiamata poi Mazzarosa quando la nipote sposò il marchese
Antonio Mazzarosa di Lucca, dovrebbero esserci i verbali degli interventi di Giuseppe Devincenzi in Parlamento, i manoscritti ed il carteggio intercorso con gli altri protagonisti della nascita e dell’infanzia di un’Italia libera e indivisibile.
Ma, finora, tutte le richieste per prenderne visione sono state sempre eluse o respinte.
Nel 1943, durante la seconda guerra mondiale, che portò fame, bombardamenti, lutti e sfollamento verso i paesi collinari, anche la Villa Mazzarosa, la Cantina ed il Parco a Mare vennero occupati dalle truppe tedesche, responsabili di moltissimi danni e della sparizione di gran parte delle botti (barriques) della barricaia, locale destinato all’invecchiamento dei vini.
Dopo la liberazione di Roseto, avvenuta il 13 maggio 1944, un distaccamento polacco occupò la villa, che diventò l’alloggio degli ufficiali, ed il parco dove furono mimetizzate le tende dei soldati.
Comandava il presidio una donna col grado di capitano. Una donna in guerra, ma sempre donna. Perché quando faceva i giri d’ispezione si accompagnava, mano nella mano, ad una piccola rosetana, che allora aveva sei anni, ed oggi ricorda ancora quel rapporto affettuoso. E si tiene ben stretta la croce di Gerusalemme in oro, regalo d’addio della capitana, prima di raggiungere, con i suoi soldati, il fronte del Nord Italia.
Terminato il conflitto, tutto tornò, pian piano, come prima.
E lungo la spiaggia della Marina di Montepagano ricominciò l’abituale passaggio delle greggi (la transumanza), all’inizio dell’autunno e durante la primavera.
In quelle occasioni i pastori dei monti teramani, venendo a contatto con agricoltori e pescatori locali, avevano la possibilità di barattare latte e formaggi con prodotti della terra e della pesca.
I rapporti tra contadini e pescatori non erano però molto socievoli, in quanto i marinai, prima di andare a pesca, avevano l’abitudine di rifornirsi di frutta, specie l’uva, facendo qualche rapida incursione notturna in quelle inabitate campagne ai margini del litorale.
Toccava allora agli agricoltori chiudere un occhio, e spesso tutti e due, perché quei lavoretti, fatti a regola d’arte, non procuravano danni alle colture.
Di quel dopoguerra i rosetani d.o.c. custodiscono ancora, gelosamente, tante immagini, grazie agli scatti di un fotografo d’eccezione, Italo Del Governatore, che aveva Roseto nel cuore.
E quei favolosi anni non moriranno finchè ci sarà qualcosa o qualcuno a ricordarli.
Giacchè siamo in tema, approfitto dell’occasione per fare un appello ai giovani Consiglieri ed Assessori, e al nuovo sindaco Pavone, che ripete ogni volta la parola riperimetrazione, ereditata dal precedente sindaco Di Bonaventura.
Diceva il grande economista Luigi Einaudi (1874 – 1961), “chi cerca rimedi economici a problemi economici è su una falsa strada”.
Sulla stessa lunghezza d’onda, Ermete Realacci, presidente onorario di Legambiente, ha scritto: “chi ha detto che con la cultura non si mangia, ha detto una cosa sbagliata, perché l’industria culturale rappresenta una parte significativa della produzione di ricchezza e dell’occupazione”.
Spetta adesso agli Amministratori, ai cittadini ed alle Associazioni, il compito di unire alla storia, alla cultura, al paesaggio e all’ambiente, il business ecoturistico, enogastronomico e dei prodotti agricoli dell’area protetta.
Se questo incrocio virtuoso sarà realizzato, allora la Riserva naturale Borsacchio, rappresentata da un Organo di Gestione e doverosamente salvaguardata, diventerà la componente essenziale del nostro marketing territoriale.
Che potrà assicurare, come accaduto in altre località, un futuro migliore alle nuove generazioni”.


07 Luglio 2011

Categoria : Turismo
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