“Quel ramo di mandorlo”, lo scrigno
L’Aquila – (di Goffredo Palmerini) – Sul finire d’una intensa e piacevole serata di fine giugno, assai attesa per l’uscita dell’ultima sua fatica letteraria, l’intervento di Errico Centofanti, conclusivo della presentazione di “Quel Ramo di Mandorlo” freschissimo di stampa per i tipi di One Group Edizioni, è inopinatamente breve, laconico. D’altronde il buongusto e la signorile sua discrezione che da sempre ne accompagnano il tratto, non gli consentono d’indugiare in valutazioni che solo ai lettori spettano sulla sua ultima creatura, la cui gestazione è stata lunga e complicata per via di quel 9 aprile 2009 che ha sconvolto la vita di ciascun aquilano e della nostra città. Lo ha detto con franchezza, l’Autore, confidando di sentirsi come un muratore che sa usare bene i suoi mattoni in questa speciale ricostruzione d’una parte della memoria della città, ricostruzione non meno importante di quella materiale. E i mattoni di Errico Centofanti sono le parole, elemento ed essenza del suo lavoro che egli sa usare a dovere, anzi a meraviglia. Ne è ben consapevole e non finge ipocrite modestie. E il messaggio che affida agli Aquilani, attraverso il suo bel libro, più d’un augurio è quasi richiamo all’impegno etico e civile, perché ciascuno senta il dovere di far bene ciò che sa fare, con lo sguardo rivolto alla rinascita dell’Aquila. Con “Quel Ramo di Mandorlo” Centofanti restituisce all’Aquila un pezzo di storia gloriosa, proprio nel momento in cui la memoria diventa parte fondante della rinascita. Protagonista è lo storico ristorante “Tre Marie” della famiglia Scipioni – locale entrato nel patrimonio monumentale del Paese – con i fatti e i personaggi che hanno segnato un’epoca, trasformando questo luogo del gusto e della buona cucina in un tempio di cultura e insieme di trasmissione di valori. Un luogo tra i più conosciuti e ambiti, attraverso tutto un secolo, la cui notorietà rimbalzava dalle più selettive guide gastronomiche ai prestigiosi quotidiani, come il New York Times. Modello d’avanguardia per quei tempi, oggi troverebbe riscontro nelle più sofisticate definizioni dell’alta gastronomia. A significare il legame profondo con la Madre Terra da cui provenivano gli ingredienti migliori della sua cucina, il capostipite don Peppe Scipioni pose all’ingresso dell’insigne locale, dove è sempre rimasto, un ramo di mandorlo. Da qui il titolo del libro, che non è solo un libro, ma un vero e proprio scrigno di preziose sorprese, avvincenti come e più d’un romanzo.
Il libro è un colto viaggio dell’anima, fecondo di sentimenti, di storia non solo civica, di buone tradizioni aquilane, di usanze e costume, attraverso episodi di vita cittadina, aneddoti, fatti e personaggi che hanno animato il leggendario locale, un crocevia d’incontri tra personaggi illustri e custode di pezzi importanti di storia e cultura della città e dell’Italia. E’ un singolare monologo interiore che si dispiega attraverso circa trecento pagine: un flusso di pensieri, ricordi, divagazioni e riflessioni, frutto dell’inestricabile intreccio di parole accumulato in ore e ore di conversazione tra Paolo Scipioni, ultimo discendente della famiglia proprietaria, e l’Autore. Racconta entusiasmi, utopie e tragedie del Novecento, secondo l’ottica di chi ne è stato testimone nel contraddittorio contesto, colto e diffidente, d’una città dall’irrisolta appartenenza. Lo sviluppo narrativo s’innerva intorno ad episodi sconosciuti o poco noti, intorno a sensazionali ricette di cucina e ad inedite vicende riguardanti personalità dei generi più diversi: Anouk Aimée, Giulio Andreotti, Michelangelo Antonioni, Pippo Baudo, Carmelo Bene, Nicola Bulgari, Luigi Carnacina, Primo Carnera, Liliana Cavani, Adriano Celentano, Fausto Coppi, Jacques Delors, Vittorio De Sica, Aldo Fabrizi, Faruk d’Egitto, Federico Fellini, Carla Fracci, Dario Fo, Richard Gere, Gustavo Adolfo di Svezia, Ugo La Malfa, Gino Marotta, Maurizio Micheli, Sandra Milo, Alberto Moravia, Pietro Nenni, Philippe Noiret, David Oistrach, Pier Paolo Pasolini, Goffredo Petrassi, Ettore Petrolini, Gigi Proietti, Mickey Rourke, Arthur Rubinstein, Dina Sassoli, Oscar Luigi Scalfaro, Andrés Segovia, Paride Stefanini, Palmiro Togliatti, Ugo Tognazzi, Alida Valli, Paolo Villaggio, Herbert von Karajan, Valerio Zurlini, per citarne alcuni, e tanti altri ancora.
Alle 18 della sera del 28 giugno, nella Sala conferenze “Tre Marie” dell’Archivio di Stato, per via della diaspora dal devastato centro della città ospitato in un complesso dell’area industriale di Paganica-Bazzano, insieme all’Autore Errico Centofanti, sono convenuti Umberto De Carolis, scrittore, Francesco Lenoci, docente all’Università Cattolica di Milano, Francesca Pompa, editore, Alido Venturi, imprenditore che ha rilevato il prestigioso marchio Tre Marie e il caratteristico locale, ed Ernesto Di Renzo, antropologo dell’Università Tor Vergata di Roma, autore d’una delle postfazioni presenti nel libro. Ospite d’eccezione Paolo Scipioni. A coordinare l’incontro il giornalista e scrittore Angelo De Nicola e l’attore Bartolomeo Giusti per la lettura di brani tratti dal volume. Dopo i saluti istituzionali del vice Presidente del Consiglio Regionale Giorgio De Matteis, dell’assessore provinciale Mauro Fattore, dell’assessore Pierluigi Pezzopane per la Municipalità aquilana e di Paolo Muzi a nome del direttore dell’Archivio di Stato, è proprio Angelo De Nicola ad illustrare il senso dell’incontro, non solo la presentazione d’un libro che testimonia un pezzo importante della memoria civica attraverso le Tre Marie, un simbolo della città, ma anche la tesaurizzazione di quella memoria per far rinascere la città. La prima testimonianza è di Francesca Pompa, presidente della One Group, che parla del libro come di “un’operazione di recupero dell’identità cittadina, nel momento in cui la memoria diventa un tassello fondante per il futuro”. E’ stata un’operazione importante per la casa editrice pubblicare il libro di Errico Centofanti, un’edizione curata in ogni dettaglio, che documenta il significato profondo di legare il passato e al futuro, l’innovazione alla tradizione e la salvaguardia del genius loci. Un’operazione culturale attraverso la gastronomia per esaltare le valenze, le bellezze e le eccellenze del territorio aquilano. Richiesto d’una testimonianza dal provetto coordinatore dell’incontro, Paolo Scipioni non riesce a celare un velo di commozione che gli incrina la voce. Ringrazia l’Autore, ne ricorda i primi passi di cronista, il talento che già da allora evidenziava con quella sua spiccata curiosità culturale che connota ogni giornalista di vaglia. E poi come nacque l’idea di scrivere un libro sulle Tre Marie, più d’un lustro fa, e quella lunga intervista, dal pomeriggio al mattino inoltrato del giorno seguente, nel corso della quale Centofanti annotava fitti appunti sulla sua agenda con scrittura minuta. Ci ha lavorato tanto all’opera, Centofanti, anche dopo il terremoto. Ma ne ha compreso a pieno lo spirito, se n’è immedesimato. Le Tre Marie non era solo un ristorante, ma “una storia”, afferma don Paolo. Infine egli ringrazia Alido Venturi, saprà dare continuità alla grande storia delle Tre Marie e restituirlo a nuova vita.
E’ il turno di Francesco Lenoci, docente all’Università Cattolica, pugliese trapiantato a Milano. “Quello che sta accadendo qui stasera – esordisce il prof. Lenoci – domani si saprà in tutto il mondo. Farò avere il mio intervento alle associazioni pugliesi in tutti i continenti, per email e attraverso Facebook. Ho chiesto con un sms a Dino Abbascià, presidente dell’Associazione Pugliesi di Milano, di poter riproporre nel capoluogo lombardo la presentazione del libro e l’annessa mostra d’arte. Mi ha risposto dopo qualche minuto: “Sei autorizzato a replicare l’evento a Milano. Porgi i saluti a tutti i presenti all’Aquila: ogni italiano ha un pezzo di cuore in quel territorio”. Sul Freccia Rossa Milano-Roma stamattina ho letto Il Sole-24Ore. C’è un’intervista a Massimo Bottura, proclamato Cuoco dell’Anno 2011 dall’Accademia Mondiale di Gastronomia. Mi ha colpito un passaggio: “All’Osteria Francescana di Modena il miglior cuoco del mondo serve piatti della tradizione del suo territorio”. La spiegazione fornita da Massimo Bottura è la seguente: “Occorre guardare al passato, riattualizzandolo in chiave contemporanea. Il che non significa affatto seguire la moda, ma vivere il tempo presente”. Sono sobbalzato: quel concetto non era per me nuovo. È incredibile, ma l’avevo letto nel libro di Errico Centofanti, Quel Ramo di Mandorlo. Si tratta del principio etico e professionale che don Peppe Scipioni definisce “semplicità”. “Semplicità”, infatti, “vuol dire pure rifuggire dall’innovazione fine a se stessa e sapersi attenere alla tradizione, pur senza rinunciare a interpretare con garbo ogni ragionevole esigenza di attualizzazione”. “Tradizione”, diceva Gustav Mahler del quale quest’anno ricorre il centenario, “non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”. Mi permetto di aggiungere che io quel ramo di mandorlo l’ho visto, il 18 marzo 2009. Se ne stava freddo e morto, come il resto del Ristorante Tre Marie. Mi venne in mente la frase di Robert De Niro in “C’era una volta in America”, quando portò la ragazza di cui era perdutamente innamorato in un ristorante stranamente deserto: “Avevi detto che ti sarebbe piaciuto un ristorante al mare. Fuori stagione sono chiusi. E io l’ho fatto aprire”. Nel 2009, il Ristorante Tre Marie era “fuori stagione” già da qualche anno. E allora voglio, desidero, anelo credere che all’Aquila si possa realizzare la fiaba della contadina e del secchio col buchino raccontata da Alido Venturi nella sua postfazione. Bisogna crederci, perché non basta più enunciare la Speranza, ma occorre organizzarla. Agli organizzatori della Speranza rivolgo i meravigliosi pensieri di un grande profeta, don Tonino Bello: “Chi spera, non fugge: cammina . . . corre . . . danza. Cambia la storia, non la subisce. Costruisce il futuro, non lo attende soltanto. Ha la grinta del lottatore, non la rassegnazione di chi disarma. Ha la passione del veggente, non l’aria avvilita di chi si lascia andare. Ricerca la solidarietà con gli altri viandanti, non la gloria del navigatore solitario”. Concludo confidando, come sempre, sulla cortesia degli Aquilani. Quando Robert De Niro verrà a visitare le Tre Marie, invitatemi di nuovo”.
“C’è molta riflessione antropologica nel libro di Centofanti”, afferma Ernesto Di Renzo, docente all’Università di Roma Tor Vergata, ricordando le sue origini marsicane e le circostanze che lo portarono, l’anno scorso, a conoscere l’Autore per via di alcune sue ricerche sull’Aquila e la Perdonanza. Ne nacque una coinvolgente conversazione di Centofanti sulla straordinaria storia della sua città e sul primo giubileo della cristianità. Molti mesi dopo quell’incontro, Centofanti gli ha chiesto di scrivere una postfazione a “Quel Ramo di Mandorlo”, un libro che Di Renzo confida avergli procurato una serie di forti suggestioni. “Da un lato Centofanti sa essere molto analitico – sottolinea il prof. Di Renzo – dall’altro la sua visione risulta sintetica, con uno sguardo unitario sulla vita politica e culturale della città che dalla fine dell’Ottocento arriva ai nostri giorni, dal locale al globale”. Molto interessanti le annotazioni del relatore nel sostenere come nell’alimentazione risieda buona parte dell’identità d’un popolo o d’una comunità. Citando al riguardo l’esempio della “panarda” aquilana – il tradizionale banchetto, un rito pantagruelico dal tramonto all’alba, che conta trentasei portate diverse – non quale simbolo dell’opulenza bensì una rivalsa all’atavica indigenza, allo sfruttamento per secoli inferto dalle classi dominanti ai pastori, con la transumanza, o nelle campagne ai cafoni di siloniana memoria. Vale la pena, tuttavia, di richiamare un breve stralcio della bella ed interessante postfazione al volume. “…Ma non solo in vista del nutrimento fisico il cibo estrinseca le sue funzioni a vantaggio dell’uomo e della sfera dei suoi bisogni primari. Al contrario, l’atto del mangiare si pone come una diffusa pratica intellettuale e come un generalizzato strumento simbolico-comunicativo attraverso cui le persone fanno (spesso inconsciamente) molte cose: ad esempio dialogano con la cultura di appartenenza e assecondano i propri psichismi interiori; ad esempio plasmano l’identità individuale e esternalizzano il proprio status sociale; ad esempio esaltano l’io locale-identitario e svalorizzano gastrocentricamente l’altrui alterità. Tutte processualità, queste ed altre, che l’Autore dimostra di comprendere a pieno allorché punta a riflettere sui nessi che nell’oggi intercorrono tra l’uomo, il cibo e la postmodernità…”. Di Renzo conclude il suo intervento con l’apodittica dichiarazione: “Peccato che il libro non l’abbia scritto io!”.
Il puntuale contributo di Umberto De Carolis, docente e scrittore, avanza come una cronistoria d’impressioni rilevate attraverso la lettura di “Quel Ramo di Mandorlo”, segnalando come Errico Centofanti abbia affrontato la sua fatica letteraria similmente a Colombo, nel buscar el levante por el poniente, facendoci così conoscere terre inesplorate e ricchezze sconosciute attraverso la “pasta raffinata della sua scrittura”. Analitica l’introspezione del relatore nei meandri della ricchezza del linguaggio, del lessico ricercato, della dovizia di riferimenti storici e letterari con cui Centofanti costruisce la sua avvincente narrazione. Ne contrappunta gli esempi, chiamando di volta in volta Bartolomeo Giusti a leggerne lacerti, con la perizia di consumato interprete teatrale, efficace nel creare suggestioni. L’ultimo intervento, prima d’ascoltare l’Autore, è di Alido Venturi, il tenace imprenditore di Antrodoco che, innamorato della storia prestigiosa delle Tre Marie, ha raccolto l’eredità culturale della famiglia Scipioni acquistando marchio, locale e opere d’arte che l’impreziosivano, con il proposito di riportare il ristorante, sottoposto a tutela dal Ministero dei Beni Culturali per il suo interesse storico, presto ai fasti migliori. Il terremoto ha solo ritardato i programmi, ma la convinzione è più solida che mai, partendo dall’assunto che “i sapori sono saperi”. Piuttosto Venturi, neanche velatamente, si dice stupito del fatto che tanta ricchezza di prestigiosa tradizione culinaria, d’arte e di cultura, che in un secolo ha costruito il mito delle Tre Marie, non abbia intrigato imprenditori aquilani, negletti e superficiali rispetto a cotanta storia. Infine, contorna la sua avventura imprenditoriale per le Tre Marie, nel rigoroso rispetto della sua gloriosa storia, non come fatto che lo riguardi al singolare, ma come una sfida comunitaria nella cornice proprio dell’identità e della memoria della città, che deve rinascere al suo splendore.
Si diceva dell’attesa di questo libro di Errico Centofanti. Il testo, nella sua bozza, era pronto nel settembre del 2008. L’Autore avrebbe apportato limature e provveduto al necessario corredo di note, riferimenti ed immagini, con il giusto equilibrio emotivo che solo un distacco temporale consente. Invece, fu il terremoto. Lo dice lo stesso Autore, nel Post Scriptum al volume. Scrive Centofanti, il 13 giugno 2010: “A lungo i palazzi nuovi e quelli antichi le chiese e le vecchie case avevano invidiato gli orti i giardini i vicoli e le piazze che per tetto tenevano quell’incomparabile cielo stellato risplendente attraverso il terso cristallo soffiato dalle alte cime genitrici, ma quando per la quarta volta il cielo si rovesciò addosso ai palazzi e dentro le chiese e le case e tutto ebbe a suo tetto il firmamento allora ai palazzi alle chiese e alle case nemmeno lacrime fu possibile trasudare dalle proprie orbite svuotate e deserte né a rimprovero della tramontata invidia né di rimpianto per la morte altrui e di sé. Era già accaduto tre secoli prima. E sei e sette secoli prima ancora. Ma ogni volta la città da sé s’era ricomposta ogni volta reinventando le membra frantumate senza tradirne le divine proporzioni architettate dai padri fondatori. Anche questa volta nelle menti e nei cuori niente fu più come prima ma, questa volta, non s’intravide un orizzonte di ricomposizione che fosse a portata di vita di noi disisperanti girovaghi in circumambulazione ai piedi della città diruta e sigillata manu militari. Le squadrate pietre accasciate e tutta la vita e le vite che esse avevano contenuto, diventate per mappe ebdomadari e cataloghi un indecifrato e inservibile non luogo, con segreto fervore in noi seguitano a durare. (…) Nella città distrutta era difficile ottenerlo, ma talvolta fu concesso d’oltrepassare garitte e reticolati per inoltrarsi attraverso le selve di legno e acciaio messe a tener dritti gli ulcerosi monconi delle gran fabbriche di sfiorito incanto. Quando accadeva, diventava possibile sostare per un po’ davanti qualcuno degli archi o portoni o finestre dove non diversamente da una madeleine intinta nel tè sgorga dal silenzio della città morta la memoria dell’abitare del soffermarsi o del conversare di chi abbiamo amato o ammirato. Non volli mancare d’andare a salutare una porta, quella porta che già prima del rovesciarsi del cielo stellato s’era impenetrabilmente rinserrata come una lastra funebre su tutto ciò che le stava alle spalle”.
L’Autore quindi continua: ”C’è un antefatto, però, e non posso non darne conto, con precisione, perché nei capitoli che precedono questo P. S. s’è più volte parlato di terremoti e a me preme dissipare l’idea che qualcosa in quei capitoli sia stato aggiustato o integrato successivamente al gran terremoto del 2009. In verità, il 23 Settembre del 2008, alle 12:06, avevo chiuso il programma di videoscrittura e ero sceso per un caffè al bar sotto lo studio: il grosso dell’impresa era ormai alle spalle: ricerche struttura e scrittura di ciò che sarebbe diventato questo libro erano compiute. Altro non restava se non la messa a punto dei dettagli e la risciacquatura generale: operazioni lunghe e fastidiose quanto indispensabili, alle quali avrei messo mano solo dopo qualche mese. Come d’abitudine, allo scopo di recuperare la freddezza critica necessaria per calibrare al meglio possibile forma e sostanza del libro, avevo necessità di prendere le distanze, di lasciar sfumare l’emozionalità della fase di composizione, di lasciar affondare nelle profondità della memoria i materiali e le suggestioni che avevo scartato. Di tempo, poi, ne è trascorso più del sufficiente, perché l’estensione del deliberato distacco s’è assai dilatata in forza delle complicanze logistiche e dell’inerzia sopraggiunte dopo i tragici sussulti che nella notte tra il 5 e il 6 Aprile del 2009 hanno irreversibilmente squarciato la continuità tra il prima e il dopo. Davanti quella porta chiusa, mi sono domandato cosa fare del libro: lasciarlo sotto le macerie o cercargli un editore?, aggiornarlo e volgerne l’esposizione al passato remoto o lasciare tutto così com’era stato raccontato e descritto fino al Settembre del 2008? La città era in quel tempo ancora viva e presente a se stessa, anche se inquieta. Inquieta, forse, più che per le contingenti ambasce, per un oscuro sentire, quasi presago e deducente di un qualche disgraziato destino che potesse sopravvenire, immiserita e periclitante quale percepiva se stessa per via del miope e neghittoso reggimento in cui s’era impigliata negli ultimi decenni e tuttavia ben lungi dall’ipotizzare l’eventualità di un sovvertimento scatarrato dagl’inferi ma anzi consapevole delle intatte potenzialità e attitudini giacenti in funzione di un rifiorire allora sperato come prossimo venturo. Poi, è stato quel che è stato”.
E ancora:”Un giorno, forse, gli edifici verranno rialzati, nuove vite rimpiazzeranno quelle travolte, le piazze e le strade si rianimeranno, le botteghe e i teatri riprenderanno a funzionare. Se quel giorno arrivasse, i soli luoghi salvati e ristorati non basteranno a far di nuovo della città un’entità vivente, reincardinata nella storia. Servirà una comunità che l’abiti e ne faccia la ragion d’essere della propria quotidianità e del proprio futuro. Serviranno memoria e identità: l’aver medicato l’atroce dolore incontrato e l’aver partorito la fatica della ricomposizione avranno bisogno di trovare non inaridite e non disperse le radici della memoria e dell’identità, di ritrovare gli umori delle persone che in quei luoghi hanno vissuto conformandoli e riempiendoli con le loro vite. Così, nulla di sostanziale ho mutato del testo chiuso nel Settembre 2008. Ho aggiustato e messo da parte, per un editore, se ci sarà, o per qualche archivio che tramandi materiali a curiosi da venire. Per quanto di poco pregio possa venir accreditato, e nonostante soggettività e frammentarietà, esso vale in qualche modo come un’istantanea scattata negli ultimi giorni della città ancora viva: noi ce la ricordiamo così e così vogliamo ricordarcela, noi che non vedremo il suo futuro, qualsiasi possa essere, noi che vi siamo nati e abbiamo voluto permanerci, che vi abbiamo gioito e sofferto, che ne abbiamo amato la plurisecolare capacità di generazione della bellezza, che per lei abbiamo inventato e creato, che infine ci siamo straziati a fronte del malsano cupio dissolvi del suo finale di partita. Così, questo, che voleva essere semplicemente un libro capace di offrire argomenti per indurre a rianimare un luogo-simbolo della città, forse adesso diventa qualcosa d’altro: un frammento di memoria, un’evocazione del volto e dell’anima della città così com’erano in tempi trapassati, qualcosa che somiglia a quei ritratti delle persone care esposti in casa sulle pareti o sui mobili, ritratti che servono un po’ da strumenti memorativi e un po’ da confortativi supplenti delle presenze irreparabilmente private della fisicità e degli umori che tanto avevamo amato”.
Ecco, in fondo, le motivazioni profonde di questo straordinario libro di Errico Centofanti. Lo sto leggendo, gustandolo come altrove si gusterebbe nettare e ambrosia. Fluisce come un fiume, calmo, le acque limpide conoscono la cornucopia d’essenze alle sponde e l’animata varietà delle specie che l’abitano. Così la bellezza della scrittura, facondo l’idioma, generosa la ricchezza d’un lessico sottile e raffinato, attento alle sfumature e ai dettagli, senza che tanta prodigalità di linguaggio, richiami storici e letterari, minimamente appesantisca il testo e la sua leggibilità. Che anzi avvince, intriga, come la trama d’un romanzo, seduce il lettore conquistandone intelletto ed emozioni. Convince davvero questa ulteriore prova letteraria di Centofanti, ma ad altre competenze, delle quali non dispongo, spetta addentarsi in appropriate valutazioni critiche di “Quel Ramo di Mandorlo”. Chi scrive invece ne osserva la singolarissima costruzione, perfino l’originale divisione del testo in lettere dell’alfabeto, l’io narrante ambivalente tra l’Autore e gli Scipioni, che connota una profonda immedesimazione senza si procuri confusione. La storia circoscritta, particolare, d’una stirpe di ristoratori e del loro locale concatena in un ibrido armonico elementi civici di rara suggestione e rimandi alla vita e alla storia del Paese nel corso del Novecento.
Uno spaccato di vita aquilana, ma non solo, in quel “secolo breve” i cui terribili drammi come le grandi speranze hanno reso più piccolo il mondo, più comune la consapevolezza dell’umanità, più decifrabile il suo destino: anche nella scala ridotta d’una città di provincia, L’Aquila, colta e altera, in un “ambiente d’elezione” qual è stato, attraverso un intero secolo, le Tre Marie. Merito di don Peppe Scipioni, “uomo dal multiforme ingegno” e quindi di suo figlio don Paolo, del loro talento, della loro capacità d’elevare a fatto culturale la tradizione culinaria del mitico locale, facendone un cenacolo d’incontri colti e significativi, un ambiente impreziosito con una collezione di opere d’artisti abruzzesi del Novecento ed appropriati arredi. Tanto ci sa narrare, con rara sapienza descrittiva, Errico Centofanti. Partendo da quella Locanda Cancellieri, che nei primi anni del passato secolo dall’Acconcio – l’attuale via Patini – si trasferì dopo la prima Grande Guerra nel locale cambiando il nome nelle Tre Marie a motivo dall’icona invetriata creata negli anni Venti da don Peppe Scipioni – le cui personali doti molto avevano assorbito in sensibilità dall’ambiente artistico vicino a Teofilo Patini e alla sua scuola – e raffigurante le evangeliche Maria madre di Gesù, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Fu in quegli anni che prese il largo l’avventura delle Tre Marie, consegnando alla città uno spicchio della sua storia ed un’insigne tradizione gastronomica che ha coltivato estimatori in tutto il mondo.
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