Cinema – Nastri sfrangiati
(di Carlo Di Stanislao) – “Habemus papam”, trombato a Cannes, si rifà in casa propria e Nanni Moretti può consolarsi (in parte) con i sei Nastri D’Argento (su sette candidature), consegnate al suo film ieri sera, al Teatro Greco di Taormina, in una cerimonia un po’ povera e un po’ malinconica, soprattutto se paragonata ad altri climi festivalieri. Il film di Moretti ha vinto come migliore pellicola della’anno e poi per la regia, la produzione (Moretti e Domenico Procacci), per la fotografia (Alessandro Pesci), la scenografia (Paola Bizzarre) e i costumi (Lina Nerli Taviani). Apprezzato anche (secondo me oltre i suoi meriti) Vallanzasca – Gli angeli del male, per il quale Kim Rossi Stuart ha vinto il premio come Miglior Attore Protagonista, mentre i Negramaro e Consuelo Catucci hanno avuto due riconoscimenti rispettivamente per la Miglior Colonna Sonora e Miglior Montaggio (questo meritato). Giuseppe Battiston è stato considerato Miglior Attore Non Protagonista per il film La Passione e Carolina Crescentini ha ricevuto lo stesso riconoscimento per la sua interpretazione in Boris. Migliore attrice protagonista Alba Rohrwacher, interprete del film La solitudine dei numeri primi, tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Giordano, con la discutibile regia di Saverio Costanzo. Il premio per la Migliore Sceneggiatura è andato a Benvenuti al sud di Luca Miniero, scritto (modulandolo dal francese “Giù a Nord”) da Massimo Gaudioso, mentre nelle categorie dei film esteri premiati Il discorso del re, Miglior Film europeo e Hereafter per la categoria dei migliori film extra – europei. L’idea che scaturisce dalle pellicole premiate (compreso il premio a Giovanna Taviani, figlia di Vittorio e nipote di Paolo, premiata per il miglior documentario “Fughe e approdi”) è che nel cinema italiano, più dei soldi, mancano proprio le idee. Un cinema senza idee e senza spessore, che produce non piccoli film, ma film piccoli, risaputo, spesso copiato e a volte anche noioso e pedantello. Non a caso trascuratissimo ai “Nastri” “Il gioiellino”, opera seconda (dopo “La ragazza del lago”), del superbo Andrea Maiolo, ricostruzione delle vicende Parmalat, costruita su una focalizzazione dettagliata, sul piano individuale, di tutta la terribile storia. Un giallo noir sullo sfondo di un crack esemplare, che esce dagli schemi e, forse per questo, viene ignorato. Insomma, anche la premiazione di ieri sera, ci conferma che i film italiani di questi ultimi anni sono in genere (con l’eccezione di Crialese, Tornatore e pochi altri) mediocri e poco trascinanti, riflesso dell’involuzione culturale, sociale e politica che attraversa il nostro Paese. Le caratterizzazioni sono spesso eccessive e stereotipe, le storie narrate di corto respiro, l’orizzonte ideale limitato e minimale, tanto quanto investito in termini di sostegno economico, tanto di poter parlare di crisi di idee oltre che di investimenti. I film prodotti in Italia nel 2010 sono stati 141: cifra tra le più elevate degli ultimi 30 anni. Il sostegno del Fondo Unico per lo Spettacolo continua a diminuire: oggi le risorse pubbliche toccano l’11%, a fronte del 35,7% del totale nel 2003. Il 48% dei film italiani ricorre al product placement. Soltanto il 21% del totale degli addetti nel cinema ha un contratto a tempo indeterminato. L’universo delle imprese attive nel settore cinematografico, oltre 9 mila, è frammentato: l’1,9% ha un fatturato superiore ai 5 milioni di euro, la maggioranza (42,5%) è tra 5 mila e i 250 mila euro. Ma al di là dei numeri, il cinema italiano, che è da sempre una galassia sfuggente, è davvero e da cinque anni, a corto di idee. Quentin Tarantino, intervistato nell’edizione di Cannes del 2007, ha detto che i nuovi film italiani sono deprimenti e tutti uguali e provando a digitare su Google “il cinema italiano fa schifo”, in meno di 0,11 secondi, compaiono oltre 352.000 risultati. E’ inoltre diffuso il clima di nostalgia per i film del dopoguerra e degli anni ’60 e ’70: densi di tensione creativa, morale e politica, che rappresentano il periodo d’oro della cinematografia nostrana e sembrano ormai troppo lontani e irraggiungibili da parte degli autori contemporanei. Nel volume “È tutto un altro film. Più coraggio e idee per il cinema italiano” di Francesco Casetti e Severino Salvemini, uscito ben quattro anni fa, ma evidentemente non letto dagli operatori del settore, ribadisce come il cinema non sia soltanto un’arte, ma anche industria; e come tale abbia bisogno di operatori in grado di pianificarne lo sviluppo nel lungo periodo, promuovendo progetti di ampio respiro che riescano a “triangolare” i tre elementi chiave che, secondo gli autori, sono alla base di una cinematografia di valore e competitiva: il prodotto, l’esperienza e il mercato. Dall’analisi, invece, dei contenuti, della distribuzione internazionale, dei premi e dei dati relativi al box office delle opere italiane dal 2000 ad oggi, emerge come la nostra cinematografia stia vivendo uno dei suoi momenti peggiori. Come scrivono Cassetti e Salvemini: “progettare è l’unica difesa dal pericolo di essere progettati”. Una maggiore progettualità, infatti, è alla base della costruzione di una florida industria formata da operatori eccellenti che sappiano sviluppare prodotti di valore in autonomia (a differenza ad esempio dell’attuale sistema produttivo, che resta caratterizzato dalla presenza di microimprese spesso sottocapitalizzate, ancora troppo vincolate ai finanziamenti statali, ed incapaci di lavorare su più di un progetto nell’arco di un anno), perchè il grado di innovatività e di sperimentazione di una cinematografia, oltre che la sua capacità di formare talenti paragonabili ai protagonisti del cinema italiano del dopoguerra e negli anni ’60 e ’70, è direttamente proporzionale alla presenza di un’industria cinematografica solida, ricettiva delle nuove tendenze e capace di valorizzarle in pieno, senza però mettere a rischio la propria sopravvivenza ad ogni nuovo progetto.
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