Monosala The End


(di Carlo Di Stanislao) – E’ accaduto lo scorso febbraio, con una accorato racconto-non racconto di “Peppuccio” Tornatore su Panorama e la protesta (inutile) di tanti uomini di cinema e di cultura. Lo storico “Lumiere”, il più antico cinema d’Italia, dopo un secolo di attività (con cambio di nome in “Splendor” e poi “Splendore” nella ottusa italianità del ventennio), ha chiuso i battenti. E’ accaduto di domenica, circostanza ancora più triste, per chi, come me, era abituato a consacrare quel particolare pomeriggio ai sogni davanti allo schermo. L’aveva voluto, costruito uno strano personaggio, cinefilo della primissima ora: il conte, Agostini, allestito, nel 1905, in una sala ricavata all’interno dello storico Caffè dell’Ussero, sul Lungarno di Tramontana di Pisa meta di patrioti e intellettuali, con una finestra della sua casa nobiliare, che apriva direttamente di fronte allo schermo. Ma adesso, nell’anno del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, quel pezzo di storia patria ha recitato il suo requiem. Agostino Agostini, nipote del conte cinefilo che, con il sogno delle immagini in movimento, costruì un sogno alla portata di tutti, ora dice che il Lumiere “l’ha ucciso l’ha ucciso l’Italia che non si impegna per la cultura” e davvero, per noi, ha ragione. Una profonda crisi aveva toccato lo storico cinema già all’inizio di questo millennio, ma poi, nel 2004 la Lumiere srl, diretta da Daniela Meucci, lo aveva riportato in vita, ristrutturandolo e ripristinando una sorta di percorso ‘museale’. Ora la Meucci è profondamente amareggiata anche nei confronti degli addetti ai lavori, che “parlano di film e cultura solo ai festival, ma poi la distribuzione, anche dei circuiti d’essai, segue unicamente le logiche del profitto e le monosale rischiano di chiudere ovunque”. Qualche giorno fa, il Los Angeles Times , in un bell’ articolo sulle difficoltà delle monosale nel processo di conversione al digitale, ci ha detto che, anche negli USA, si è già convertito circa il 50% delle sue sale cinematografiche, e raccontato quanto sia difficile, per le vecchie strutture a schermo unico, investire nelle nuove tecnologie e di quanto sia forte il rischio chiusura. Addio, quindi, alle serate di cineforum, ai film d’elite proposti ai veri cultori del cinema. Per non parlare, poi, del mondo di internet che, soprattutto, nei più giovani ha fatto perdere il piacere di sedersi in poltrona per godere di uno spettacolo sul grande schermo. Costa niente- dicono in molti- e poi si è liberi di guardarli in qualsiasi momento, sia sul Pc che alla TV. I nuovi canali digitali e i canali a pagamento offrono, inoltre, una grande gamma di spettacoli, a pochi mesi dalla prima nazionale. Cinema tramontato, allora? Non per tutti. C’è ancora chi ama l’atmosfera della sala cinematografica, il fruscio della pellicola e il momento in cui si spengono le luci per dare inizio alla rappresentazione. Solo a Roma, e solo in un anno (il già lontano 2001), chiusero l’Etoile, il Capranica, l’America, l’Apollo, il Majestic, mentre l’ Ulisse convertì, per tirtare a campare, ad una programmazione a luci rosse. A Milano, solo nel 2007, hanno chiuso, uno dopo l’altro, sia il Cavour che il Brera. ADESSO A Milano resta solo una Monosala, il Mexico, ma è già condannata a morire (vedihttp://wn.com/Mexico_cinema_per_passione_a_Milano). Sempre nel 2007, a Firenze, ha chiuso l’ultimo cinema monosale: l’Universale, la mitica sala di proiezione che si trovava in via Pisana,nel quartiere Pignone. E da noi, a L’Aquila, il terremoto ha spento l’ultima monosala: il Massimo, che ha resistito integro e disabitato, recuperabile, ma fra le “non priorità”. Entro due anni – scriveva qualche giorno fa il New York Times – farà la sua comparsa nelle sale statunitensi il proiettore digitale, in sostanza, una nuova macchina che non usa più la pellicola a 35 millimetri, pesante e ingombrante, ma nastri magnetici o dischi digitali. La Texas Instruments ha creato un proiettore che funziona grazie a un chip fatto di milioni di minuscoli specchi, la Hughes-Jvc ha invece inventato un’altra tecnologia detta a “valvola luminosa”. Entrambi i produttori garantiscono che gli apparecchi offrono una qualità dell’immagine assolutamente identica, per definizione, ricchezza e calore, a quella della pellicola tradizionale, ma senza gli inconvenienti, audio e video, del vecchio sistema. Ma i soldi per l’acquisto o la conversione che l’avranno solo le multisale. Certamente ci emozioneremo seduti su comode poltrone, avvolti dal buio, mangiando i popcorn, ma dovremo però dire addio alla pellicola che si sgrana e scoppietta, al familiare rumore del nastro che si svolge nella cabina del proiettore, al conoscere per nome la maschera ed il bigliettaio ed attendere, per mesi, l’arrivo di un certo film, immaginandolo nella testa, prima ancora che sullo schermo. Ad onor del vero, ci dicono gli esperti, il “cinema elettronico” offre vantaggi economici enormi, soprattutto per le grandi case di produzione di Hollywood. Le copie delle pellicole chimiche costano molto, circa duemila dollari l’una. Un grosso film ne richiede circa cinquemila, solo per distribuirlo negli Stati Uniti. Le copie su supporto digitale hanno costi molto più ridotti. Inoltre, non si consumano, né si alterano anche dopo migliaia di proiezioni. Il film, beninteso, verrà ancora girato e montato in 35 millimetri. Una volta finito, con una macchina chiamata telecine, ne verrà fatta una copia digitale. Tutte le copie che seguiranno saranno delle repliche perfette. Le pellicole, invece, perdono fuoco e vivacità nei colori già nel passaggio dalla copia originale. Ma, come diceva mio padre parlando del vino, quello vero offre sempre il rischio della sorpresa, che fa unica ogni bottiglia e non appiattisce odore e sapore, in una litania di eterna ripetizione, con sfumature che nessuno più sembra voler cogliere e che tutti sembrano ignorare. Ho nostalgia della monosala, come ho nostalgia di film in celluloide, come delle minigonne, dei primi jeans e bikini, dei tacchi a spillo, agli albori di un consumismo, con sugli schermi la dolce vita e gli spaghetti western, i film su Maciste ed Ercole e quelli sui “vitelloni”. E il cinema correva, come correva la Nazione e non riusciva a registrare un trend, un disagio, un evento particolarmente rappresentativo che già il mondo era mutatola. Da Monicelli a Germi e a De Filippo, da De Sica a Lizzani, da Fellini a Visconti, per continuare con Steno, Risi, Camerini, Leone, una vitalità infinita di idee, di copioni ben curati, di scene così studiate da poter essere appese al muro, fotogramma per fotogramma. E se l’America ci proponeva Dean e Brando, noi rispondevamo parlando napoletano, con un Totò al massimo della forma, ma anche romano con un Sordi che ci rappresentava tutti. I primi amori, i primi uffici ed impiegati, i primi imbrogli, furti, bidoni all’italiana sullo schermo. Ma anche tanto neorealismo, per non dimenticare da quale dramma si fosse usciti, per indicare la strada per uscirne del tutto. Questa capacità del cinema italiano di sognare, ma con i piedi ben piantati nella realtà quotidiana, si sarebbe esaurita con l’avvento del boom economico, con la nascita della “commedia all’italiana” e del ricchissimo filone mitologico (Sansone, Maciste & co) con cui tanti registi italiani avrebbero addirittura, a partire dal 1960, sbancato Hollywood. E poi, il decennio dopo, travagliato e sofferente, che già recava in sé i segni di un mondo futuro più caotico e globale, che sente fortemente l’ideologia come tessuto connettivo, ma al tempo stesso non rinuncia al privato. Uno scenario difficile, ma assolutamente non “buio” come molti l’hanno definito. Un periodo in cui le domande, sopratutto dei più giovani, erano abbondantemente di più delle risposte che a loro venivano date. E le risposte spesso erano anche sbagliate, ma oneste. Di questo periodo gremito di monosale, di piccoli cinema incui evadere e pensare, di sogni ad occhi aperti e cuore attento, davvero, ogni giorno ho più nostalgia.


30 Giugno 2011

Categoria : Cultura
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