Morire tra criminalità e indifferenza


(di Carlo Di Stanislao) – Si chiamava Cristiano Congiu il tenente colonnello dei carabinieri, cinquanta anni e ultima vittima italiana in Afganistan, ucciso venerdì scorso in una località della valle del Panjshir, una delle zone in apparenza più calme della Regione, appena toccata dalla guerra, verdeggiante centro di miniere di smeraldi e rubini ed inumato ieri, nella sua Pontecorvo, dove viveva con la moglie Ornella e la figlia di soli cinque anni. Secondo l’autopsia, eseguita presso l’Istituto di Medicina Legale dell’Università la Sapienza, il militare è stato colpito mortalmente da due colpi: uno al viso e uno al petto, mentre le indagine svolte dai Ros, fanno ritenere che la sua morte non sia conseguente a indagini a lui affidate, ma a motivi accidentali. Ucciso dalla criminalità comune, l’ufficiale era impegnato presso l’ambasciata italiana a Kabul e a Pontecorvo, suo paese natale, aveva comandato la compagnia dei carabinieri dal 1994 al 1999, distinguendosi per grande spirito di abnegazione e l’ estrema bravura investigativa. Attorno alla morte del tenente colonnello, comunque, sussistono ancora dubbi, specialmente sulla dinamica e i motivi che hanno portato all’omicidio. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, l’uomo, si trovava in compagnia di due conoscenti, una americana e un afgano ed e’ stato ucciso dopo una colluttazione con un ragazzo che aveva aggredito la donna. Ma perché si trovasse tanto distante da Kabul non è stato ancora chiarito. Il deputato radicale Maurizio Turco, cofondatore del Partito per la tutela dei diritti di militari e Forze di polizia (Pdm), ha presentato una interrogazione al ministro della Difesa chiedendo per quali motivi il tenente colonnello Cristiano Congiu “si trovasse in visita alle miniere di smeraldi della zona di Khinch, se vi si trovasse per ragioni del suo servizio e, nel caso, quali fossero gli ordini ricevuti e quali compiti stesse assolvendo”. Durante l’omelia il vescovo di Sora, Filippo Iannone, ha richiamato, prendendo spunto da una lettera di San Paolo, il valore umano del carabiniere, l’impegno e il suo coraggio. Poi ha donato, dopo averla appoggiata per pochi secondi sul feretro, una coroncina alla madre e alla moglie del militare ucciso. Numerose le autorità presenti, tra cui il sottosegretario Guido Crosetto, il presidente della provincia Antonello Iannarilli e il presidente del Consiglio regionale del Lazio Mario Abruzzese. Pontecorvo è un paese di 15.000 abitabnti, immerso nel verde nella provincia di Frosinone, un paesino tranquillo, dove il tenente colonnello aveva conosciuto quella che sarebbe diventata sua moglie, originaria di Roccasecca e volontaria soccorritrice dell’associazione Misericordia. Con il suo aiuto e quello di un amico farmacista, Congiu stava portando avanti un progetto inerenti l’apertura di un ospedale per bambini mutilati in Afganistan. Doveva rientrare in Italia il 19 giugno ma è stato ucciso in un luogo lontanissimo da casa, probabilmente a causa della sua natura di generoso difensore dei deboli, che gli era valsa l’appellativo di “Rambo” ai tempi in cui prestava servizio a Pontecorvo. Il luogotenente Enzo Di Mascio, suo braccio destro a quei tempi, ha detto a Il Messaggero: “Era un trascinatore dalla grande carica umana. Aveva fiuto. Suo obiettivo era la guerra alla droga. Mi chiamava papà, perché ero il più anziano. E, quando d’estate facevamo servizi notturni, spesso ci rifocillava con bibite e cornetti. Quando c’erano le cene tra colleghi, capitava che serviva lui a tavola. Era sempre il primo – aggiunge Di Mascio, che ha battezzato la figlia dell’ufficiale – ad aiutare chi aveva bisogno”. Sul Corriere della Sera Claudio Magris, qualche giorno fa, parlava allarmato di assuefazione alle sciagure e ai morti e lo faceva con fondate ragioni che riguardano noi tutti, sia quando scompaiono oltre 200 persone in mare, sia quando muore un militare, in una zona di guerra. Una assuefazione che porta all’indifferenza per tutte le sventure ed è il segno di un imbarbarimento morale ed etico, sociale ed individuale, di una incapacità di mettersi nella pelle degli altri, anche quando gli altri sono dei connazionali. In Afganistan gli italiani hanno scelto di stare in mezzo alla gente, di sostenere gli afgani nella governance e nella ricostruzione, progettando e realizzando interventi in vari settori: dall’istruzione alla sanità, dall’acqua all’economia; la stessa scelta compiuta per ’Animal Housè, la ’Base Maestralè dei carabinieri, sventrata a Nassiriya, la stessa di Herat di pochi giorni fa, con due o più attentati e scontri a fuoco con armi leggere e pesanti durati per ore. L’Afganistan -scrive Parag Khanna, analista indiano divenuto consulente di Obama a meno di 30 anni- è oggetto del Grande Gioco con la Shangai Cooperation Organization (SCO). I cinesi hanno fatto grandi affari con i talebani negli anni ’90 e ora approfittano della presenza Nato per lanciare offerte al ribasso sulle infrastrutture lungo l’asse che scorre tra Kabul ed Herat. L’obiettivo ultimo dei cinesi -scrive Khanna- è “disporre di tragitti affidabili via terra fino all’Iran”. Da parte sua il regime di Teheran opera da sud con manovre sui rifugiati afgani e col sostegno ai talebani. Ciò spiega la vera natura del conflitto in quelle terre. Afganistan e Pakistan hanno già lo status di osservatori della SCO ed è probabile che dopo l’uscita della missione internazionale ne diventeranno membri a pieno titolo. E continua l’esperto USA, se si vuole capire cosa succede in questa provincia strategica, ci si deve riferire al Messico, nazione dove nel 2010 sono morte 7000 persone per la guerra tra i narcos e l’esercito. I narcotrafficanti sanno giocare molto bene -come i loro colleghi di Ciudad Juarez- il gioco dei confini e delle alleanze. Sanno anche giocare il gioco degli attacchi intimidatori, quando qualcuno tocca le coltivazioni e i traffici di oppio e armi. E forse questo è il motivo dell’assassinio del nostro carabiniere. Come ha scritto pochi giorni fa sulle colonne del Secolo XIX Paolo Della Sala, dopo essere sopravvissuto a ogni genere di invasioni, da Genghis Khan ai russi, l’Afganistan comincia a cedere sotto la degenerazione del denaro facile e in questo ambiente il modello degli aiuti alla popolazione, su cui si basa l’intervento italiano, dà un enorme fastidio, più del militarismo puro applicato dai nostri alleati. Di fatto, eliminato Osama Bin Laden, ci si chiede quale sia ora il vero orizzonte di quella guerra che l’Occidente sta combattendo da dieci anni in Afganistan. Quanto all’Italia, il capo del governo avrebbe potuto chiederlo al Presidente degli Stati Uniti, considerando che laggiù i nostri soldati sono numerosi, quasi tremila e 38 di loro sono già caduti. Le domande che Berlusconi avrebbe dovuto porre, invece di far trasecolare Obama e gli altri del G8 con esternazioni fuori luogo, è fin quando si inseguirà il fantasma del mullah Omar e se davvero Al Qaeda è ancora una minaccia per l’Occidente. Soprattutto avrebbe dovuto chiedere lumi sul come fare per concludere una guerra che in dieci anni non ha portato ad alcuna pacificazione.


08 Giugno 2011

Categoria : Cronaca
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