Nastri d’argento: aggiornamenti ed altro
(di Carlo Di Stanislao) – A parte “Habemus papam”, grande favorito con sette nomination, sono le commedie a vincere come genere in questa edizione del Nastro D’Argento, con “Benvenuti al Sud” e “Nessuno mi può giudicare” con sei nomination e cinque per “La solitudine dei numeri primi”. Quanto agli altri favoriti, ciascuino con quattro nomination, abbiamo” Malavoglia” di Pasquale Scimeca, “Una vita tranquilla” di Claudio Cupellini con Toni Servillo, “Vallanzasca – Gli angeli del male” di Michele Placido, “20 sigarette” di Aureliano Amadei e, ancora due commedie di Paolo Genovese “Immaturi” e “La banda dei Babbi Natale”. I premi saranno assegnati il 25 giugno sul palco del Teatro Antico di Taormina, ma intanto, anche le altre candidature parlano di attenzione per la commedia: basti pensare a Paola Cortellesi (candidata come Migliore Attrice Protagonista per “Nessuno mi può giudicare” e “Maschi contro femmine”), alla coppia Bisio/Siani (candidati insieme come Migliore Attore Protagonista per “Benvenuti al Sud”), o alle nomination come attore ed attrice non protagonista, che vedono in lizza, tra gli altri, Rocco Papaleo (“Che bella giornata”), Ricky Memphis e Maurizio Mattioli (“Immaturi”), Valentina Lodovini (“Benvenuti al sud”), Giuseppe Battiston (“Figli delle stelle”), Carolina Crescentini (“Boris – Il film”). C’è chi si lamenta (anche per l’assenza di premi importanti al nostro cinema e da anni) e dice che da noi ormai si girano solo commedie, con storie trite e ritrite e personaggi sempre uguali. In verità questa china involutiva risale agli anni ottanta del secolo scorso, con film come Grandi Magazzini, Rimini, Rimini, Sapore di mare che sono i maggior successi al box office. Si tratta di commedie corali superficiali e di bassa lega, lontane anni luce dalle commedie brillanti made in USA o le commedie all’italiana di Risi e Monicelli. Lo stesso discorso vale per i decenni successivi.Tale involuzione culturale degli italiani e dell’Italia coincide con la nascita delle tv private (Fininvest è fondata nel ‘78), che diffondono una Tv scollacciata e goliardica riproposta poi anche al cinema e incarnata dall’italiano medio Lino Banfi che era ed è tutt’ora amico intimo dell’allora Presidente di Finivest Berlusconi. Ma è poi proprio a Mediaset, sempre di proprietà di Fininvest, che si deve il restauro dei grandi capolavori del nostro cinema: Umberto D, Prima della rivoluzione, La Dolce Vita, L’avventura e tanti altri oggi si possono ammirare ad una qualità superiore perfino a quella di film appena usciti, grazie alla collana “Cinema forever” di Medusa Home Entertainment, in costante crescita. Praticamente un paradosso. Con la fine del Neorealismo il cinema italiano non avrebbe più trovato definizioni e si sarebbe diviso in tante strade diverse che portavano ai suoi principali esponenti. I magici anni ’60 videro anche l’introduzione di una legge che considera il cinema mezzo di espressione artistica, informazione culturale e comunicazione sociale. Gli anni ’70 si aprono con grandi capolavori e grandi problemi finanziari e si chiudono tristemente. Si afferma lo spaghetti-western, contaminato dal cinema americano. Ed è proprio il cinema di Hollywood a segnare il tramonto del cinema europeo. Mancano nuovi registi, nuovi volti, nuovi titoli. In Italia si girano solo drammi o commedie. Da allora il nostro cinema è in crisi anche di identità. Il problema è che i grandi autori godono di grande stima della critica, ma sempre minor attenzione del pubblico (l’effetto del ’68 e dei cineforum si spegne in fretta), che sembra preferire generi più commerciali. Negli anni immediatamente i box office sono sostanzialmente tre generi: l’horror (Argento, Bava, Fulci), l’erotico (soprattutto la coppia Banfi-Fenech)e il comico, l’unico che sopravvivrà. Si tratta di film spesso scadenti, cosiddetti di serie B, ma che, in molti casi, reggono il mercato. I film di oggi, invece, sono altrettanto scadenti e spesso, con scarsissima vendita e diffusione. Così Virzì gira l’ennesima commedia con Pieraccioni in Toscana, con i soliti ritmi e gli stessi contenuti di decine di consimili film, mentre l’eternamente giovane Woody Allen, uscito dal bunker newyorkese dai tempi di “Match Point”, reduce dal successo al Festival del Cannes del suo Midnight in Paris, si appresta a girare Bop Decameron, film prodotto da Medusa, a Roma con Benigni ed una sceneggiatura del tutto imprevedibile, con una personalissima interpretazione del capolavoro di Boccaccio. Tutto è pronto per le riprese: la sceneggiatura è pronta, così come il cast, che vede, oltre al regista, anche Alec Baldwin, Ellen Page, Jesse Eisenberg, Penelope Cruz, Judie Davis. E poi c’è Roberto Benigni, perché come sottolinea Allen non poteva “fare un film in Italia senza di lui, rappresenta il meglio del vostro cinema. Sarà protagonista di uno degli episodi. Mi divertiva l’idea di fargli interpretare un italiano qualunque che vive a Roma. Il suo personaggio è un impiegato in un ufficio. Una persona molto comune, un uomo dimesso e tranquillo che si ritroverà vivere un’esperienza fantastica“. Tornando ai Nastri D’Argento, l’altro ieri assegnato lo “speciale” del sindacato nazionale giornalisti cinematografici, a Pupi Avati, per i quarantenni di carriera. Avati, ha collezionato, sin’ora, sette nomination e cinque vittorie (Una gita scolastica, 1984, miglior soggetto e regia; Storia di ragazzi e ragazze, 1990, sceneggiatura e regia; Festival, 1990, migliore produttore), ai Nastri D’Argento. Il riconoscimento di quest’anno è legato, nella motivazione, alla sua ultima pellicola, “Una sconfinata giovinezza”, un film che, a mio giudizio, è la metafora e lo specchio del cinema italiano di questi anni: ben fatto e su un grande tema, ma noioso e scontatissimo, con sviluppi intuibili e senza nessuno sforzo di vera novità. Un film filtrato dalla solita indulgenza e dal solito cerchiobottismo di Avati, che stavolta prende di mira la nostalgia come effettivo ritorno al passato, con un prodotto a mezzavia tra un’opera di fiction televisiva d’alto profilo, con tutti i manierismi tipici della narrazione da piccolo schermo e la poetica d’ampio respiro che contraddistingueva molto cinema d’autore nostrano, ma senza prendere alcuna svolta o netta decisione; un normale prodotto per la prima serata Rai o Mediaset, una storia senza estremi e spigolature, che parla di un male feroce, ma in maniera fin troppo debole per rendere giustizia a un soggetto del genere.
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