Opinioni – Europa disunita ed Italia “cementata” alla deriva


(di Carlo Di Stanislao) – Dopo il richiamo al governo sul rimpasto e la richiesta di presentare alla Camere i nuovi ingressi di sottosegretari decisi nei giorni scorsi da Berlusconi, con l’unico scopo di mettersi tranquillo e dopo la dura presa di posizione, al Quirinale, durante la cerimonia dei premi David di Donatello, sull’”l’indispensabile abbattimento del debito pubblico nel quadro delle difficili prove che ci attendono”; il Presidente Napolitano, intervenendo ieri con un videomessaggio al Festival dell’Europa in corso a Firenze, ha detto anche che ci troviamo di fronte “ad uno stato insoddisfacente dell’Unione Europea come soggetto di politica internazionale” e che stiamo vivendo degli eventi dirompenti carichi di possibilita’ di incognite nel Mediterraneo, nell’Africa e nel Medio Oriente, e rispetto a questi “l’Unione Europea non e’ riuscita ad esprimere una posizione comune”. Per Nopolitano “Bisognerebbe mettere l’accento sull’insufficiente ruolo dell’Unione Europea nelle crisi geopolitiche, come in Nord Africa. In particolare sulla Libia, area su cui anche se vi sono un’ analisi ed elaborazione comune, non è stato possibile trovare “visioni condivise”. Come scritto sul Manifesto da E. Baldini già nel 2000, la costruzione dell’Europa come entità politica nuova avrebbe dovuto presuppore l’invenzione di una forma di Stato pluralista – chiamata federale o confederale – che fosse andato oltre l’antitesi tra la ‘sovranità nazionale’, diventata ampiamente fittizia, e l’egemonismo continentale’ senza base popolare. Avrebbe, in altre parole, dovuto presupporre una “mondializzazione” percepita non soltanto come un insieme di vincoli esterni, come un quadro economico e tecnologico a cui la politica cerca di adattarsi in modo più o meno efficace; bensì come un processo di civiltà aperto, suscettibile di evolvere in direzioni molto composite, a cui i popoli europei, nella diversità delle rispettive culture e condizioni sociali, partecipassero come protagonisti. Per fare ciò sarebbe, ed è ancora, necessario che tutti i popoli fossero in grado di immaginare e di rappresentarsi un’azione comune, attraverso ideologie e ‘miti’ (nel senso dato da Sorel al mito mobilitante), comuni; cosa che non è mai, davvero, neanche iniziata. E, a livello ancora più profondo, sarebbe stato necessario far emergere un concetto condiviso di ‘Costituzione europea’, mentre è palese che i giuristi, sin’ora, sono restati prigionieri dell’alternativa tra le discussioni sulla forma costituzionale (la normatività giuridica, il potere legislativo e vincolante delle diverse ‘fonti’ del diritto gerarchizzato nell’Europa attuale) e i dibattiti metafisici sul ‘potere costituente’, conferito dalla legittimità popolare (dietro il quale si aggira sempre lo spettro della rivoluzione o della dittatura); apparentemente, senza essere stati capaci di immaginare né un concetto ‘allargato’ di Costituzione, alla Montesquieu: regime politico-sociale, insieme storico non gerarchizzato di diritti individuali e collettivi, forme di rappresentanza, di istanze di potere o di decisione; né un concetto ‘evolutivo’ alla Gramsci: una Costituzione che sia contemporaneamente un principio di apertura delle istituzioni alla loro trasformazione, al loro proprio superamento. Dal momento in cui ci si è di fatto arresi alla doppia evidenza – nessuna pratica collettiva della politica senza strutture pubbliche (quindi statali), nessuna struttura pubblica, o Stato, in Europa, senza uno sviluppo della pratica politica comune (insomma, nessuna ‘politica senza politica’, che è invece il sogno di ogni burocrate che vorrebbe sostituirla con le trattative, la gestione e la fabbricazione del ‘consenso’) – tutte le questioni tradizionalmente legate all’idea di sovranità (e persino questa stessa idea), devono essere ridiscusse: popolo e nazione, Costituzione e democrazia, amministrazione e rappresentanza, con nessuna decisione assunta davvero con condivisione fra le Nazioni, rimanendo spesso, contraddittori, conflittuali e, pertanto, inefficaci. C’è molta burocrazia oggi in Europa, ma non c’è uno Stato nel senso di istituzione ‘politica’: una struttura di decisione, di rappresentanza, di amministrazione pubblica, secondo i criteri dell’interesse generale. Ora, ci sono buone ragioni per stabilire uno stretto collegamento tra l’idea di sovranità popolare, cioè di una direzione degli affari comuni da parte delle masse popolari e l’istituzione politica statale; ma è del tutto mitico credere che gli Stati nazionali abbiano conservato i mezzi per riunire, da soli, le condizioni di una gestione ‘sovrana’ dei problemi sociali, economici, culturali da cui dipendono la vita quotidiana e l’avvenire delle generazioni. In realtà, siamo di fronte a uno scarto flagrante tra i poteri reali (che non sono nulli, ma limitati) e le pretese o i miti, che contribuiscono a chiudere le prospettive della costruzione democratica in un’alternativa ristretta tra sovra-nazionalità o dissoluzione delle entità nazionali da un lato, e dall’altro restaurazione pari pari delle prerogative dello Stato-nazione, o più precisamente dei più potenti Stati-nazione, un tempo forti del loro ruolo imperialista nel mondo (ciò che a volte in Francia è chiamato ‘sovranismo’). E questi Stati-nazione che di fatto dettano le politiche europee, sono chiaramente tre: Germania, Inghilterra e Francia, nazioni in cui, di fatto, non vi è un riconoscimento dei diritti e degli apporti di tutte le comunità storicamente presenti sul suolo europeo, ma piuttosto un isolamento post-coloniale delle popolazioni ‘autoctone’ rispetto a quelle ‘allogene’. Questo, come contraccolpo, espone la comunità allo sviluppo di irrigidimenti delle diverse identità, secondo il modello di mutuo rafforzamento dei nazionalismi e dei comunitarismi (ivi compresi i comunitarismi ‘laici’, ‘repubblicani’, ecc.), che la mondializzazione favorisce, con crescita di consensi del populismo che, da noi, si esprime con l’exploit del partito leghista. Di fatto, un immigrato ‘extra comunitario’, nell’Unione, diventa un emarginato all’interno della società e le esclusioni ‘nazionali’, totalizzandosi su scala europea e cambiando oggettivamente di significato: la ‘cittadinanza europea’ si presenta ormai come un meccanismo che include determinate popolazioni storicamente presenti nello spazio europeo, respingendone altre che, in maggior parte da lunga data, contribuiscono anch’esse allo sviluppo della ‘società civile’ del nuovo spazio politico. Gli stranieri (in particolare i lavoratori immigrati, o coloro che chiedono asilo) sono diventati dei second class citizens, generalmente stigmatizzati a causa delle loro origini etniche e delle caratteristiche presupposte delle loro culture, sottoposti a sorveglianza speciale per le entrate e le uscite, il soggiorno e le attività svolte. L’esclusione, è facile soprattutto ora constatarlo, riguarda sia le popolazioni del ‘Sud’ legate all’Europa da circuiti più o meno antichi, più o meno legali, di reclutamento della manodopera, sia l’ammissione selettiva dei popoli dell’Est e del Sud-Est europeo nella ‘comunità’. Come ha detto Etienne Balibar, professore di filosofia politica e morale all’Università di Nanterre (Paris X), non dobbiamo pensare (e Napolitano, saggiamente non lo fa), che l’Europa verrà fatta ‘dall’alto’, ma, contemporaneamente, occorre non lasciare l’iniziativa dei movimenti e degli interventi ‘dal basso’ (o trasversali, ‘civili’, ‘sociali’), in mano alle forze anti-europee o euro-conservatrici (vale a dire in particolare che dobbiamo prendere molto sul serio sia i movimenti ‘populisti’ come quelli che crescono in Francia, in Italia, in Austria, in Svizzera, nella Fiandre, in Fillandia e Germania, alla ricerca di una formula ‘né a destra né a sinistra’ che finalmente funzioni). Ciò che occorre fare è, singolarmente, battersi a fianco di chi, rinunciando ad ogni retorica populista, sappia intervenire sul vero senso dell’’internazionalismo odierno, ovvero conferire il massimo di chiarezza e di intensità al multiculturalismo, in modo da riaprire le prospettive storiche e politiche, all’appartenenza ed insieme alla capacità di confronto dialettico e di accoglienza. In fondo sia l’ambasciatore USA in Italia David Thorne, in apertura di servizio, che Hillary Clinton nel corso della intervista con Maria Annunziata, ieri in “Mezz’Ora”, hanno ribadito proprio questo: la necessità di interventi USA sotto forma di Nato in questioni che l’Europa unita avrebbe dovuto risolvere da se stessa. La questione Libia-immigrati-rivolte in Nord-Africa, dimostra che l’Europa è unita solo da un punto di vista monetario e con gli interessi economici dei singoli Stati imperare e divide su tutto. Ed anche da un punto di vista monetario le cose in Europa vanno meno bene del previsto. Il 24 marzo del 2000, ci fu una riunione dei capi di governo europei a Lisbona. L’economia americana era al massimo, Wall Street e il Nasdaq esplodevano sotto la spinta della new economy. L’Europa sentiva sul collo il fiato della concorrenza. Tornò in auge la “sfida americana”. Il vecchio continente decise di raccoglierla: “L’Europa deve diventare un’economia basata sulla conoscenza, che sia la più dinamica e competitiva del mondo”, si leggeva nelle considerazioni conclusive del vertice. L’economia sarebbe dovuta crescere di un 3% medio l’anno per dieci anni. Ci sarebbero stati 20 milioni di posti di lavoro in più. Sarebbe stata eliminata la burocrazia, ci sarebbe stata più ricerca, Internet sarebbe entrata in tutte le case e in tutti gli uffici. La moneta unica era alle porte. Il sistema Europa sarebbe stato finalmente competitivo nei confronti degli Stati Uniti. Nel frattempo c’è stato l’11 settembre. L’attacco ha rivelato che gli Stati Uniti erano già in recessione, e le belle speranze europee si sono infrante contro una realtà risaputa se pur rimossa: tutte le economie del mondo sono interdipendenti, ma quella degli Stati Uniti può contare su un fattore speciale, la sua potenza unitaria e dominatrice sulla finanza mondiale. Il capitale monetario appartiene in buona misura all’America. Di là parte, s’investe, ritorna maggiorato. L’America controlla il riflusso del capitale nel mondo: D-D’, dove D’ è tutto americano. Per questo ha potuto permettersi, dopo l’11 settembre, di indirizzarne una quota enorme a sostegno dell’economia. E le cose sono peggiorate ora con gli interventi a sostegno di Irlanda, Grecia ed anche Portogallo, con Spagna e Italia che nel frattempo annaspano. E vi sono anche analisti economici che avvertono che o l’Europa si inventa una vera, nuova, politica economica e non una imitazione di quella americana o il suo sarà un disastroso fallimento anche su questo piano. Costoro avvertono che, mentre gli Stati Uniti possono contare su un sistema unitario, un vasto territorio, una popolazione numerosa, un continente intero a disposizione con tutte le sue ricchezze e la sua manodopera a basso prezzo fuori dalle leggi dell’Unione, più una potenza militare ineguagliabile; il Vecchio Continente ha un territorio molto meno vasto, una popolazione più numerosa e più concentrata, un ben scarso controllo sui paesi vicini dell’Est e nessuno su quelli del Mediterraneo, diventato mare interno americano dopo la II Guerra Mondiale, come ci ricordano le truppe dislocate nei paesi rivieraschi e la presenza ammonitrice della VI Flotta ed i fatti recenti di Libia. E, ancora, non ha un sistema unitario, tanto che i gruppi industriali riescono a far muovere i governi sui propri interessi particolari, cioè in concorrenza con quelli delle industrie di altri paesi. Così in Francia c’è una particolare politica statale per l’energia elettrica, mentre in Germania è particolare l’aiuto statale all’industria automobilistica; entrambe le politiche sono fustigate dalla commissione europea contro i monopoli, ma questa suscita soltanto le ire degli interessati e non è ascoltata da nessuno. In questo modo, anche se dovesse raggiungere l’unità politica, L’Europa non potrebbe comunque permettere al suo interno la libertà d’azione che si permette il capitale americano, poiché il mercato è congestionato da troppi doppioni d’industria, di banche, di assicurazioni, di società di servizi, ecc. Ora, in questa situazione, un’unione effettiva avrebbe come primo risultato qualcosa di simile a ciò che succede nelle grandi fusioni industriali: cioè lo snellimento delle strutture ridondanti e questo farebbe saltare il capitalismo europeo, che si troverebbe a dover affrontare una rivolta sociale interna per nuovi licenziamenti e una guerra finanziaria esterna scatenata dagli Stati Uniti, indubbiamente molto più forti ed agguerriti. Ecco allora che va progettata un’Europa non solo con idee condivise, ma con nuove idee di sviluppo, che non scimmiotti o rincorra gli Stati Uniti e che sappia reinventarsi sul mercato del lavoro e della produzione, valorizzando le prerogative di ogni singolo Paese. Già Bill Emmot, sul Corriere della Sera, tre anni fa, scriveva che i fatti accaduti in Europa hanno smentito quei politici e commentatori secondo cui il modello europeo di capitalismo, e specie quello finanziario, fosse superiore a quello angloamericano, solitamente tacciato di maggior spregiudicatezza. Inoltre, ancora adesso, i vari Paesi Europei si trovano a fronteggiare la progressiva recessione economica, aggravata dai tagli al prestito effettuati dalle banche, che ha provocato parecchi fallimenti, sia familiari che aziendali, che sono andati a sommarsi nuovamente alle perdite e alle sofferenze bancarie, con una incertezza sulla reale portata di queste difficoltà e sulle debolezze ancora nascoste nei bilanci bancari, che continua ad affossare i mercati azionari. E, in questo difficile clima, per quanto riguarda l’Italia, vi è una politica estera ondivaga ed incerta, mentre manca del tutto un grande progetto di rilancio del Paese. Come scrive sul Sole 24 Ore Alessandro Graziani, servirebbe un clima di unità per marciare compatti in un’unica direzione, come era negli anni ’60 e come avviene oggi in Paesi emergenti; invece le varie forze che dovrebbero contribuire alla crescita economica sono disunite ed anzi configgono su questioni di secondaria importanza. E all’estero, il peso politico e d’immagine dell’Italia non è dei migliori, tanto che il 2 giugno non verrà Obama, ma il suo vice per la nostra Festa della Repubblica. Certamente ci apprezzano per gli sforzi di contenimento del debito e per il rigore nella finanza pubblica, ma non per le scelte ambigue circa la politica estera e la mancanza di un piano di rinnovamento e ripresa economica e strutturale. Certamente l’Italia ha grandi eccellenze e grandi potenzialità, ma bisogna che chi ha posizioni di leadership, si assuma le proprie responsabilità e non si infogni in meri giochini politici per salvaguardare se stesso e la propria poltrona. E bisogna anche farlo in fretta, perché i Paesi emergenti corrono creando un gap di competitività sempre più ampio. Dicevamo che occorrono politiche ed investimenti nuovi e non, ad esempio, creazione di cantieri continui che cementificano in modo selvaggio una Nazione che ha invece nelle bellezze naturali e rurali uno dei suoi beni maggiori. “L’Italia è simile a un sogno che ti rammenti per tutta la vita”. Quando Anna Akhmatova scrisse queste parole l’Europa era ancora indaffarata a rimediare agli sfaceli della prima guerra mondiale e anche in Italia grandi processi di trasformazione coinvolgevano società e territorio: dalla diffusione delle industrie alle prime vaste espansioni delle città, dalla nascita delle città operaie a quella di borgate e periferie urbane, dalle opere di bonifica integrale alla costruzione del sistema infrastrutturale ed ai colossali interventi urbanistici. Dovettero però passare ancora decenni prima che la mano dell’uomo riuscisse a ridefinire completamente i rapporti intercorsi per secoli fra il paesaggio e i suoi abitanti, passando da una generale interazione sostenibile ad una diffusa aggressione distruttiva. Nell’ultimo mezzo secolo il nostro Paese ha consumato in cemento e asfalto oltre 12.000.000 di ettari, cioè una quantità di paesaggio rurale e naturale pari a tre volte la superficie territoriale dell’intera Svizzera. Va sottolineato che l’andamento del consumo del suolo negli ultimi anni ha raggiunto livelli drammatici, tanto che dal 1990 al 2005 3.663.000 ettari di paesaggio naturale e rurale italiano, più del 10% del territorio nazionale, sono stati ricoperti di cemento e asfalto. Va anche rimarcato come i 244.000 ettari all’anno di nuovo cemento e asfalto non sono solo un incalcolabile danno al territorio, ma contribuiscono ogni anno all’aggravarsi della situazione insediativa del Paese, andando ad aumentare il numero e le dimensioni degli agglomerati edilizi senza identità, dequalificando vaste aree delle nostre città e dei nostri paesi costituendo le cosiddette “villettopoli”, “fabbricopoli” e “commerciopoli”, sparse senza logica in un paesaggio informe, anonimo e frammentato, secondo quello skyline cui oggi lo spettacolo della ricostruzione emergenziale ci ha, come aquilani, abituato. Questo processo è aspetto evidente della mancanza reale di una governance razionale rispetto ai processi di trasformazione territoriali; infatti in Paesi come l’Inghilterra, dove la lotta a questo tipo di fenomeni è iniziata addirittura prima della seconda guerra mondiale, i risultati sono ben diversi e visibilmente riscontrabili, basti pensare il 70% delle nuove costruzioni avviene, per legge, all’interno di aree già edificate. Anche in Francia vi è da decenni una forte attenzione e questi temi, mentre in Germania e in Olanda, dove nei territori della Ruhr e della Randstad vi sono enormi conurbazioni simili a quella della “megalopoli padana”, esistono già da mezzo secolo leggi ed enti preposti a governare in modo unitario i processi di trasformazione del territorio. Proprio in questo aspetto l’arretratezza dell’Italia rispetto al panorama dell’Europa risulta ancor più evidente: secondo l’ISPRA da noi circolano oltre 50.000.000 di veicoli su gomma con un aumento del 11% rispetto al 2000, la rete ferroviaria nazionale risulta di gran lunga inferiore alle corrispettive dei più avanzati paesi europei (Italia 24.179 km, Francia 32.643 km Germania 41,896 km), e la gran parte dei pochi investimenti in opere infrastrutturali viene ancora indirizzato alla rete autostradale mentre nel resto d’Europa fin dalla fine del XIX secolo si investiva su ferrovie e metropolitane. Ma la principale beffa sta nel fatto che dal 1995 al 2010 si sono costruiti in Italia quasi 4.000.000.000 di metri cubi di edificato, dei quali il 60% per attività commerciali e produttive e il restante 40% nel settore residenziale (ISTAT 2010), a fronte di un’economia a cavallo tra stagnazione e recessione e di un andamento demografico di poco superiore allo zero, solo grazie all’immigrazione. La posto in gioco, pertanto, non è solo dare un futuro ai nostri giovani con politiche serie ed innovative ed accoglienza verso chi, anche se con cultura diversa, si offre di aiutarlo questo Paese; ma anche salvaguardare ciò che resta del nostro paesaggio, che è la “rappresentazione materiale e visibile della patria”, di noi stessi, di quello che siamo e siamo stati; ma è anche e soprattutto quello che saremo, quello che daremo ai nostri figli, quello che saranno le generazioni che dopo di noi verranno e se non per chi ci ha preceduto, se non per noi, almeno per loro credo valga la pena di provare davvero a dare un futuro alla nostra terra. Nel mese di febbraio scorso, il Financial Times ci ha descritto in questo modo (vedi: http://fugadeitalenti.wordpress.com/2011/02/20/spigolature/) : “ “Un’economia sclerotica, una società civile rovinata dalla corruzione e dal crimine organizzato, un crescente scontro generazionale. Una società controllata da una classe dirigente gerontocratica, annidatasi nei settori della politica e degli affari, escludendo i giovani. I migliori elementi di questa società, proprio i giovani, vagano per l’Europa come emigranti“.Il degrado etico ha raggiunto livelli di guardia, con scandali che scoppiano ormai ogni giorno (Parentopoli a Roma, Affittopoli a Milano, macerie e non ricostruzione a L’Aquila e immondizia a Napoli), per non parlare delle vicende giudiziarie che riguardano il premier. Le quali, a loro volta, portano alla luce un sottobosco di selezione della classe dirigente da voltastomaco. Il nostro è un Paese che continua a vantare straordinarie risorse, dove vivono e lavorano talenti eccezionali, dalla creatività superiore, ma che, come sistema ha fallito. “Dappertutto vedo servi felici: uomini e donne che vivono contenti dei loro privilegi, ottenuti servendo i potenti che comandano il Paese. Sono servi, perché hanno barattato la libertà in cambio di privilegi, e sono felici perché non si rendono conto di ciò che hanno sacrificato“: così scrive Elio Rossi, nom de plume dell’autore del libro “I professionisti del potere”, da pochissimo nelle librerie. La popolazione sta invecchiando: nei prossimi dieci anni gli italiani con un’età compresa tra i 20 e i 39 anni saranno numericamente superati per la prima volta da coloro che si trovano nella fascia 50-69 anni. Il tasso di disoccupazione dei giovani laureati è superiore rispetto alla media europea, e supera di tre volte quello Usa. Mentre non attiriamo “cervelli” e “talenti” stranieri, per compensare quantomeno la perdita di coloro che scelgono la via dell’espatrio. La classe dirigente italiana intanto prende la via della pensione: la media anagrafica è di 47,7 anni, contro una media Ue a 44,7 anni. Il titolo di studio e il livello del salario dei figli è in diretta relazione con quello dei padri. Mentre la spesa per la protezione sociale se ne va per la maggior parte in pensioni, e molto meno nel sostegno ai redditi da disoccupazione. Last but not least, anche la quota del Pil destinata all’istruzione resta inferiore rispetto alla media Ocse. Per Social Watch, “la crisi economica ha portato nel 2009 a una forte diminuzione dei posti di lavoro per i più giovani. Il numero di giovani occupati è sceso di circa 300mila unità, cifra che rappresenta il 79% del calo complessivo dell’occupazione“. Esplode anche il numero di “Neet”, giovani che non lavorano e non frequentano alcun corso di studi. L’Europa aspetta ancora il piano italiano di riforme per sostenere la crescita, ma finchè questo Paese non comprenderà che giovani, innovazione e liberalizzazioni (quelle vere) sono il mix ideale per rilanciare il futuro, potrà sempre meno considerarsi come “Europa”, anche se questa è ancora vaga e disunita e sempre più alla deriva verso il sud del Mediterraneo, con ritardi ed errori sempre più esiziali.


09 Maggio 2011

Categoria : Politica
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