Di Donato, nomi e proposte Abruzzo-USA


(di Carlo Di Stanislao) – Nato a New Hoboken, New Jersey, USA, nel 1911, Pietro Di Donato ha vissuto in prima persona l’epopea della grande migrazione italiana negli Stati Uniti. Il padre, morto in un cantiere edile il Venerdì Santo del 1923, era un semplice manovale emigrato agli inizi del Secolo dalla città del Vasto, in provincia di Chieti e rappresentava soltanto un paio delle milioni di mani che contribuirono alla realizzazione delle grandi opere architettoniche americane. La vita dei tanti muratori italiani trascorse tra un grattacielo e l’altro delle metropoli nordamericane e il giovane scrittore visse in prima persona le costruzioni dei grattacieli di Manhattan e la sistemazione delle opere murarie nel porto di New York. Un’intera esistenza di emarginati, quella della prima generazione di emigranti, sacrificata sull’altare dell’acculturazione dei propri figli, per permettere l’inserimento in una società dominata dall’unico indiscutibile codice morale, il profitto. “Cristo tra i muratori” è un romanzo proletario scritto da un proletario, pensato in origine come un racconto breve pubblicato da Esquire, ma poi subito rielaborato per divenire un romanzo. Cristo tra i muratori uscì nel 1939 ed ebbe un notevolissimo successo di pubblico e di critica. Impregnato di autobiografia il racconto si collocò tra gli scaffali delle librerie come una vera e propria denuncia sociale del grande “boom” dell’emigrazione e attirò dopo pochi anni anche le attenzioni del cinema. Il regista Edward Dmytryck realizzò nel 1949 una pellicola incentrata su questo libro dandogli il titolo di Give Us this Day; realizzò in pratica il suo capolavoro, per un film che ancora oggi viene considerato un caposaldo della tematica sociale. Interpretato da una bravissima Lea Padovani, il film fu proiettato in Italia nel 1950 con il titolo originale del libro, Cristo fra i muratori e vinse il Premio Pasinetti della critica italiana alla Mostra internazionale del cinema di Venezia. Successo meritato per una pellicola realizzata dal regista fuori dagli Stati Uniti. Dmytryck infatti subì sulla sua pelle la “caccia alle streghe” scatenata nel secondo dopoguerra dalla guerra fredda tra Stati Uniti e URSS, una guerra combattuta strenuamente nel cinema dalla “Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals”, organismo che vedeva potenziali spie sovietiche in chiunque e che compilò liste di proscrizione nei confronti di uomini che a Hollywood non condividevano il generale isterismo da “grande paura”. Di Donato, lui stesso operaio edile, obbiettore di coscienza durante la II guerra mondiale, nel 1978, con il suo servizio giornalistico sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro (intitolato “Christ in Plastic”), vinse il premio dell’Overseas Press. Ora, nel centenario dalla sua nascita, la città di Vasto ha dedicato una strada all’illustre concittadino, con una cerimonia avvenuta domenica scorsa, alla presenza di Richard Di Donato, figlio del grande scrittore. E, sempre nel centenario della nascita, Il Comune di Taranta Peligna, in collaborazione con INAIL Abruzzo, la Fondazione Carichieti, l’Ordine dei Giornalisti e con il patrocinio della Presidenza della Repubblica e dell’ANCI, gli ha intitolata un premio, con crerimonia di consegna dei riconoscimenti per la prima edizione sabato scorso, da parte della giuria composta da Fausto Bertinotti e da Tiziano Treu, Silvano Moffa, Enzo Jacopino e Lucia Annunziata,. Pietro Di Donato non è il solo grande scrittore con sangue abruzzese divenuto famoso negli USA. La presenza abruzzese nel panorama italoamericano, cospicua per autori e per testi, attraversa le fasi fatidiche e i passaggi generazionali dell’emigrazione dagli scrittori genericamente etichettati come ethnic writers, e dunque classificati come autori di “sottoprodotti” letterari, vicari alla produzione egemonica del paese in cui furono pensati e agli scrittori che “appartengono alla letteratura americana per scelta linguistica e per modelli o referenti letterari”, come scrive Claudio Gorlier a proposito di John Fante. Né si può dimenticare l’aquilano Maria Fratti, che sin dal suo arrivo negli USA, nel 1963, quanto aveva 36 anni, è accolto con favore dalla critica e dal pubblico, che si innamorano del suo stile perfettamente compatibile con l’indole americana, aliena dalle ridondanze, dalle metafore e dalle sfumature tipiche del teatro europeo. Fra le sue numerose opere, tradotte in 20 lingue, Nine, liberamente ispirata dal film 8½ di Federico Fellini, diventata un musical d’enorme successo e vero e proprio fenomeno teatrale, con oltre duemila repliche, con l’ultima versione, con Antonio Banderas interprete, cheè rimasta per molti mesi in cartellone al teatro Eugene O’ Neil, a Broadway ed un film, del 2009, diretto da Rob Marshall, che ha ottenuto 4 candidature al’Oscar e cinque nomination ai Golden Globe del 2010. Lo scorso 17 marzo, a New York, con la verve di un ragazzino, Mario Fratti ha interpretato l’Eroe dei due Mondi nel suo atto unico, scritto tre anni fa, “Garibaldi”, con due soli personaggi: una donna che va a Caprera ad intervistare l’anziano condottiero ed il vecchio patriota, allettato, ma dal fascino sempre vivo; una bella figura d’uomo che adora l’Italia, odia il papa e il clero perché contrari all’unità d’Italia e, soprattutto, capace di ammettere i propri errori e le proprie colpe. Prima di questa, con la figlia Valentina, aveva scritto “L’Aquila”, presentata al Cherry Lane Theatre nel giugno del 2009: atto d’amore per la sua città natale, composto da due atti unici, e celebrazione del Capoluogo a due mesi dal terremoto che l’ha quasi distrutto, ma anche un tributo a nove ragazzi, amici di Fratti, conosciuti tra gli aquilani come “i nove martiri”. I giovani, tutti fra i 17 e i vent’anni, volevano unirsi ai partigiani per combattere gli occupanti tedeschi, ma vennero scoperti dai nazisti alle porte della città e giustiziati in una caserma poco distante. Fratti li ha ricordati perché lui era il decimo del gruppo, quello che non volle partire. Ed anche in questo caso, lo scrittore mette in scena una confessione bellissima e impietosa, mostrando una sincerità emozionante e fuori dal comune. Nel primo atto, , intitolato Martyrs, l’autore immagina il dialogo tra due giovani, Giorgio Scimia e Bruno D’Inzillo, che prima di partire per le montagna accusano Mario (lui stesso) di essere “un gran parlatore senza coraggio”. L’atto si apre sul palco nudo con una scena commovente; entrando in casa sua, Giorgio sorprende l’amico mentre sistema su un tavolo dei piccoli regali per i suoi familiari “nel caso non dovessimo tornare”. Il dialogo è toccante, ma asciutto e senza retorica. Gli scambi di battute tra i due compagni sono carichi di un entusiasmo che solo i diciassettenni possono mostrare ma che Fratti sa esprimere benissimo. Gli attori Tim McCracken e Nicholas Rodriguez non hanno alcuna difficoltà a farsi passare per due adolescenti nell’Aquila occupata del settembre 1943. Nel secondo atto, intitolato Unearthed, scritto questo con la figlia, i nove giovani sono risvegliati dal terremoto del 6 aprile e scoprono che la loro città è finalmente libera dai nazisti, ma ora metà di essa è stata sepolta dalle macerie. Uno di loro, Fernando, uscito dalla tomba, racconta agli altri quel che ha visto per le strade: poche persone, nessun viso conosciuto, e un grande cambiamento. Quella che una volta si chiamava Piazza 28 Ottobre è diventata Piazza dei nove martiri. La loro città non li aveva dimenticati. Ancora una volta un’opera commovente e senza retorica, chiusa dalle note di O Bella Ciao, che cantate con la sincerità che animava quel gruppo di ragazzi idealisti e sfortunati e che, si spera, possa dare vigore agli aquilani in un nuovo dramma gonfio di difficoltà.


04 Aprile 2011

Categoria : Cultura
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