6 aprile – Le macerie del cuore
L’Aquila – Pubblichiamo tre interventi di particolare significato sul 6 aprile: sono del vescovo Molinari, del vescovo D’Ercole e di don Claudio Tracanna.
GIUSEPPE MOLINARI – Mi è stato chiesto di ricordare il secondo anniversario della nostra tragedia. Sono perplesso. So che si diranno e si scriveranno tante parole. Mi accorgo che, in questi due anni, anch’io ho detto e ho scritto tante parole. E non so se quelle parole erano le più giuste. Confesso che, in questo anniversario, sono preso da un desiderio violento di silenzio. Vorrei rimanere muto. Vorrei poter parlare solo con la vicinanza più sincera e affettuosa a chi ha perduto più di tutti gli altri in quella terribile notte. Ogni giorno mi scorrono davanti i volti di tutti i fratelli e sorelle che non sono più fisicamente con noi. Parlo con loro. Ma soprattutto parlo di loro al Dio di Gesù Cristo.
Ecco, forse in questo anniversario, è bene parlare soprattutto di questi nostri fratelli che la morte ha strappato alla tenerezza del nostro amore, alla gioia della nostra amicizia, alla felicità del nostro sguardo.
Ho detto che di loro parlo spesso al Signore. E a Lui chiedo: perché Signore?
Perché queste vite stroncate così? Perché queste storie che stavano sbocciando in sinfonie e colori diversi si sono concluse così tragicamente in quella notte terribile, in quella manciata di secondi che feriscono ancora, ogni momento, la nostra anima prima che la nostra memoria?
Confesso che dal 6 aprile 2009 conservo sempre presso di me due immagini. Non sono opere d’arte, sono umili raffigurazioni del volto di Cristo che muore sulla croce e del volto di Maria, la Madre dei dolori. Guardo queste due immagini e parlo con loro.
A Gesù coronato di spine e agonizzante dico: «Ma perché hai scelto questa morte terribile? Mi sembra di sentire ancora il tuo urlo sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E so che quella volta, dal cielo, non è venuta nessuna risposta. È giunta solo l’ora della morte. Ma in quel momento sei riuscito a dire: “Nelle tue mani, Padre, consegno il mio spirito”. Eppure tante volte il cielo aveva risposto. Sulle rive del Giordano, mentre ti avvicinavi a Giovanni per il battesimo di penitenza; sul monte della Trasfigurazione, mentre rivelavi lo splendore della tua divinità a Pietro, Giacomo e Giovanni. E poi… in quelle lunghe notti di preghiera, sotto le stelle, quando ti inabissavi nei tuoi interminabili e dolcissimi colloqui con il Padre…».
E quando mi rivolgo a Maria, la Madre dei dolori, anche a Lei dico: «Cosa hai provato sotto la croce, quando vedevi il tuo Gesù consumarsi nella sua atroce agonia? Hai sentito che gridava al Padre, che soffriva la sete…Ma in quel momento credevi ancora che Egli era veramente il Figlio di Dio, come ti aveva annunciato l’Angelo? Certo il vecchio Simeone ti aveva avvertito, quel giorno, nel tempio di Gerusalemme dove hai portato Gesù ancora bambino: “Anche a te una spada trafiggerà il cuore”. E la tua fede, la tua certezza che Gesù era veramente il Figlio di Dio come si è scontrata con questa realtà brutale di morte, di sofferenza inaudita, di abbandono e di solitudine?».
Le risposte a queste mie domande blasfeme non me le danno le povere immagini che contemplo ogni giorno e con le quali intesso i miei strani colloqui.
Ma per fortuna la risposta c’è. Ed è una sola. È quella che trovo nel Vangelo: “Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore vivrà: chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno” (Gv. 11,25.28).
Maria di Nazareth, per prima e più di tutti, ha creduto in questa parola del Suo Figlio Gesù.
E ora, nell’infinita luce del Paradiso, vive la verità di queste parole e la gioia senza confini. E mi piace vedere accanto a Lei la schiera immensa di tutti coloro che hanno creduto e sperato in Gesù. Anche i nostri fratelli e sorelle della notte della paura e della morte. Perché sulla croce Gesù ha preso su di sé tutti i nostri dolori, le nostre paure e le nostre sofferenze.
E neppure un frammento di questa sofferenza andrà perduto.
Tutto, un giorno, ci svelerà il suo significato.
Anche i fratelli e sorelle, che quella notte ci hanno lasciato, ci parlano. Io percepisco un unico messaggio: «Non rattristatevi per noi. Siamo nella vita vera. Qui non ci sono più né morte, né dolore, né lacrime. C’è solo una cosa che ci rattrista. Quando volgiamo il nostro sguardo sulla terra e sulla nostra città. E siamo costretti a constatare che il nostro sacrificio non vi ha insegnato nulla. È vero, vediamo le macerie della nostra città. Ma vediamo prima di tutto le macerie delle vostre anime……. Macerie fatte di egoismo, di arrivismo, di odio politico, di menzogna, di sfruttamento, di ingiustizia. No, purtroppo, non avete imparato nulla.
Ma fate ancora in tempo: ascoltateci!
Ritrovate la concordia, la solidarietà, l’altruismo, l’impegno per il bene comune, l’amore a Dio e l’amore ai fratelli. Solo così rimuoverete le macerie dai vostri cuori. E anche dalla vostra città. Perché tutto un giorno passerà. Solo l’amore resterà per sempre».
GIOVANNI D’ERCOLE – Sono passati due anni dal tragico 6 aprile 2009 quando la terra tremando violentemente per una manciata di secondi ha seminato qui a l’Aquila pianto e morte, distruzione e smarrimento. Solo una manciata di secondi e sembrava un’eternità in quella notte tra la domenica delle palme e il lunedì santo! Ripensando al nostro terremoto viene naturale chiedersi: e che sarebbe successo se il sisma fosse stato violento come quello in Giappone e fosse durato, come laggiù, quasi 7 minuti?
Meglio non pensarci. Anzi no, occorre pensarci per renderci conto della fragilità della nostra esistenza, per toccare con mano l’incertezza delle nostre sicurezze e per saper apprezzare il valore del tempo che ci viene dato come pure per riconoscere umilmente l’importanza di tutto ciò che abbiamo e che in un istante può tutto finire. Sotto le macerie e per sempre. A due anni da quel giorno triste, le ferite nei familiari delle vittime restano aperte e doloranti. Le macerie stentano ad essere rimosse del tutto e gli edifici lesionati e “imbracati” da impalcature di sicurezza, specie nel centro storico, stanno ad aspettare che la vita riprenda. Che la ricostruzione diventi realtà condivisa. Si vorrebbe voltare pagina, ma ancora è faticoso poterlo fare. Eppure dobbiamo non fermarci. La speranza ci trascina verso il futuro e chiede a tutti di rimboccarsi le maniche per la ricostruzione della città. Ricostruzione materiale certamente, ma non solo. Ricostruzione soprattutto umana e sociale, spirituale e religiosa.
Come sarà l’Aquila dei prossimi decenni? La domanda è legittima e forse è quella giusta da porsi in questo secondo anniversario del sisma, che per volere dei familiari delle vittime si svolge in un clima di sobria e sentita partecipazione popolare. Il terremoto ha segnato l’inizio di una nuova era della nostra storia aquilana. E da quel giorno sono già passati due anni. L’Aquila andrà morendo un po’ per volta o rinascerà più bella di prima come amiamo ripetere tutti, con un po’ di retorica, in ogni circostanza? Motivi per lasciarsi prendere dallo sconforto ce ne sono tanti: ritardi burocratici, interessi privati che prevalgono sul bene comune, progetti che stentano a diventare operativi, mancanza di coordinamento e scontri tra istituzioni e componenti politiche della città, come la cronaca quotidiana ampiamente registra. Crisi di lavoro e sofferenza di tante famiglie in serie difficoltà; giovani che se ne vanno ed anziani che non si riconoscono più nelle precarie condizioni nelle quali versano. Insomma problemi e preoccupazioni. Se però questi sono motivi per cedere allo scoraggiamento, la speranza è più forte e in questa circostanza, nel ricordo delle vittime, deve prevalere su tutto. Mi sembra di percepire il silenzioso grido che viene dalle 309 vittime del sisma. E’ un invito a lasciare da parte logiche d’interesse personale e beghe di ogni tipo per unire gli sforzi in una sinergia di intenti e di cuori tra tutti coloro che amano veramente questa città. Il modo migliore per commemorare chi è rimasto sotto le macerie è togliere le macerie al più presto e, superando ogni intralcio burocratico, ridare volto di vita alle case. Far circolare la speranza. Ma come? Offrendo ciascuno il proprio contributo sapendo che solo io posso farcela, ma non posso farcela da solo.
Prego per questo in questi giorni, convinto che Iddio toccherà il cuore di tutti noi e il miracolo della speranza diventerà gioia condivisa per una città che riparte e corre verso un futuro migliore per tutti.
Il narciso fiorirà
CLAUDIO TRACANNA – Le immagini della tragedia del Giappone, trasmesse ogni giorno dai media,
fanno venire quasi lo scrupolo nel ricordare il terremoto aquilano
nettamente inferiore a quello nipponico sia per numero di scosse che per
numero di vittime. Ogni vita umana, però, fosse anche una sola, merita
sempre di essere ricordata .
A due anni dal terribile sisma, l’Aquila ancora non riesce a spiccare il
volo verso la rinascita. La politica locale, come si sa, è fortemente in
crisi nonostante sembri risolta quella in Comune. Forti tensioni continuano
ad esserci tra chi, come gli ingegneri, gli architetti, e i costruttori
dovrebbero essere tra i protagonisti della ricostruzione. Inoltre la città è
ancora priva di luoghi di incontro e socializzazione per i giovani e gli
anziani. Dopo una efficiente gestione dell’emergenza, dunque, la tanto
discussa ricostruzione sembra essere come una giacca tirata di qua e di là
che non riesce a trovare nessun proprietario.
Giorni fa, ad esempio, è venuto a mancare un noto urbanista aquilano,
Marcello Vittorini, che subito dopo il sisma aveva sottolineato a tutti i
responsabili la necessità di restituire subito agli aquilani alcuni
monumenti, testimoni della storia e simbolo dell’identità cittadina. Il suo
appello, però, è rimasto inascoltato.
Il rischio dunque, è che la situazione attuale rischi di uccidere quella
speranza necessaria ora più che mai per guardare avanti verso il futuro.
Speriamo che nessuno degli attuali responsabili della ricostruzione voglia
essere annoverato dalla storia tra coloro che hanno ucciso la speranza di un
popolo che vuole rinascere a tutti i costi. Sì, perché accanto alla
situazione appena descritta, c’è quella rappresentata dagli aquilani, quelli
che non hanno responsabilità pubbliche, ma che nel silenzio della propria
casa, del proprio ufficio o della propria attività, costituiscono la vera
forza che sta evitando alla nostra città di morire una seconda volta dopo il
terremoto.
In una cronaca della fondazione della città dell’Aquila, uno scrittore,
Buccio di Ranallo disse degli aquilani: “Ficero la città solliciti et
uniti”.
A due anni dal terremoto, allora, leggo la frase appena citata non più solo
come un auspicio ma come una via obbligatoria da percorrere al più presto,
pena la morte definitiva dell’Aquila. Morte che questa volta non sarebbe
dovuta al terremoto ma all’incapacità di essere “solliciti et uniti” così
come lo furono i nostri antenati.
Certamente il prossimo sei aprile, ancora tante lacrime scenderanno sui
nostri volti, tanti ricordi invaderanno la nostra mente. Penso soprattutto
ai genitori che non hanno più i loro figli e alle tante famiglie che
soffrono terribilmente per il vuoto lasciato da un loro caro vittima del
terremoto.
E’ importante però che questo momento di giusta e doverosa commemorazione,
non sia fine a sé stesso ma sproni ognuno di noi a fare quello che i nostri
defunti oggi ci chiedono: in loro memoria ricostruire la città più sicura e
più bella di prima.
Allora, il ricordo del 6 aprile sia – come afferma il profeta Isaia – il
giorno in cui possa fiorire, nella steppa del post terremoto, il narciso
della speranza. La speranza di una città rinata dalle macerie.
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