Venti anni dopo


(di Carlo Di Stanislao) – In Italia la memoria di fatti e personaggi dura un giorno e quella dei casi giudiziari, invece, decenni. Così, dopo il delitto Cesaroni, la scienza viene in soccorso agli investigatori, per risolvere un altro caso che in venti anni non aveva ancora trovato una risposta: l’omicidio di Alberica Filo Della Torre, che grazie alle analisi del Dna, sembra aver trovato una soluzione, con l’arresto del domestico filippino Winston Manuel, già sospettato e prosciolto, a suo tempo. Italo Ormanni, ex procuratore aggiunto al Tribunale di Roma, ha ricostruito per l’Agi il lungo svolgimento della vicenda. “Nell’autunno del ’95 mi fu affidato il coordinamento delle indagini, ma il fascicolo Winston era stato gia’ mandato al Gip con richiesta di archiviazione. In ogni caso la posizione dell’ex domestico era stata presa in considerazione insieme ad altre, compreso il vicino di casa della contessa. Ma non siamo mai giunti a una conclusione univoca, e probabilmente senza l’esame del Dna non ci si sarebbe giunti mai”. Il delitto avvenuto nel 1991, era divenuto l’ennesimo buco nell’acqua della procura di Roma, già provata dal coevo ed irrisolto caso di via Poma. Nell’ottobre del 1993, una vicenda che scosse fin nelle fondamenta il Quirinale (lo scandalo dei fondi SISDE), sembrò intrecciarsi con quel delitto, poiché si rivelò che Michele Finocchi, funzionario del servizio segreto civile, il SISDE appunto, ricercato per aver sottratto svariati miliardi alle casse del servizio, era uno fra i più assidui frequentatori della villa dell’Olgiata, molto amico della contessa e alcuni testimoni ricordarono che il giorno del delitto, il 10 agosto di due anni prima, Finocchi era stato tra i primi ad arrivare sul luogo del delitto, forse, addirittura, prima degli investigatori. L’affare si complicò, poi, con la scoperta che la contessa e suo marito disponevano di svariati conti bancari all’estero con cifre miliardarie, loro che benestanti lo erano, ma proprio ricchissimi no, sicché si pensò ad un giro di denaro occulto in cui la vittima era coinvolta. Nel 1996 arrivò un nuovo procuratore aggiunto per occuparsi del caso: Italo Ormanni. Gli investigatori tramite le rogatorie finanziarie internazionali cercarono di venire a capo dell’intricato assetto di conti finanziari intestati alla contessa che portarono a scoprire ingenti trasferimenti di denaro dalla Svizzera al Lussemburgo, ma le indagini si fermarono anche su questo versante. Poi un silenzio di sei anni, finchè, nel 2004, il caso venne riaperto, con l’ingresso nella vicenda dell’ultimo personaggio sinora noto: Franklin Yung, un imprenditore di Hong Kong, amico di famiglia, che risiedeva poco distante il luogo del delitto e che conosceva assai bene la villa. Inoltre, rivedendo gli esami autoptici, si scoprì che la contessa è morta per una particolare forma di soffocamento provocata dalla pressione di un dito sulla carotide, una tecnica tipica delle arti marziali di cui Yung era esperto: ma, alla fine, anche questa pista non portò a nulla. Il Caso venne definitivamente archiviato nel giugno del 2005; ma, nel Gennaio 2007, il procuratore Ormanni, accogliendo un’istanza di Mattei per rivedere alcune prove alla luce delle nuove tecniche investigative, lo riaprì e nel giugno del 2008 gli esami portano ad individuare tracce di sangue su di un fazzoletto rinvenuto sul luogo del delitto, non appartenente ad alcuno dei precedenti sospettati: Inoltre, nel giugno 2009, si aggiunsero all’inchiesta alcune nuove dichiarazioni da parte di un’amica della contessa, la signora Lisa Marianne Jorgensen, la quale affermò che poco prima di morire la vittima le aveva rivelato di esser preoccupata dal fatto di esser spiata da uno sconosciuto ed inoltre rivelò, che poco tempo addietro la signora della Torre aveva rifiutato a Franca Senapa, un prestito e che tale rifiuto era terminato con un’accesa discussione. Nel 2010, il PM Francesca Loy, chiamata ad occuparsi del caso, affidò al RIS il compito di analizzare l’orologio che la contessa aveva al polso al momento del decesso ed il lenzuolo alla ricerca di tracce di DNA dell’assassino. Inoltre, poco dopo, accadde un fatto nuovo: un’amica della vittima, tal Emilia Parisi Halfon, si presentò volontariamente al nucleo operativo dei carabinieri per consegnare un telefono cellulare che, secondo la donna, apparteneva alla sfortunata contessa, sostenendo che il telefono gli è stato consegnato dal marito della contessa Della Torre, il quale, all’epoca, l’aveva pregata di tenerlo nascosto. Ieri, infine, la prova del DNA su nuovi reperti accerta la colpevolezza in modo definitivo, secondo gli inquirenti, del cameriere filippino, licenziato poco tempo prima del delitto. Personalmente, in questo ed altri casi, soprattutto quando le indagini si distanziano e si accavallano nel tempo, vedo gli stessi elementi del gaddiano “pasticciaccio” e mi viene di pensare a vicende che non hanno uno schema nitido ed ordinato, ma tendono ad ingarbugliarsi, a formare un groviglio, o garbuglio, o gnommero, un vero e proprio assillo, che assume le forme paradossali di giallo senza risoluzione, che alla fine lascia aperte tutte le possibilità, anche quando vi sono reperti apparentemente inconfutabili. Il fatto è che nel delitto dell’Olgiata, nulla può essere ricondotto ad un’unica causa, nessuna cosa può essere racchiusa in un bozzolo sicuro e inespugnabile di univocità. Nel richiamato delitto di via Poma, a gennaio scorso, una sentenza di primo grado, dichiarava colpevole l’allora fidanzato Raniero Busco, condannandolo a 24 anni di reclusione e al pagamento delle spese processuali e del risarcimento, in separata sede, delle parti civili. Ma, anche in questo caso e nonostante il DNA, restano forti dubbi. In questi giorni, dopo trent’anni di incertezze, finalmente l’omicidio di Sebastiano Bosio, medico “scomodo” per le cosche mafiose, in un’epoca, l’inizio degli anni Ottanta, in cui la ribellione alla mafia non era affatto comune, ha trovato una soluzione. La Procura di Palermo, infatti, ha individuato uno degli assassini e, quattro giorni fa, il pm della Dda Lia Sava, ha chiesto il rinvio a giudizio per il boss del quartiere Resuttana, Antonino Madonia. Una svolta tardiva, arrivata dopo la perizia dei carabinieri del Ris sui proiettili utilizzati dai sicari per uccidere il professionista, primario di chirurgia vascolare, all’uscita dal suo studio in piena zona residenziale, in via Simone Cuccia. Ma una soluzione lineare, nata da indagini precise e rigorose, senza ombre o dubbi, senza perizie tardive su reperti biologici, ritrovati fortunosamente e dopo vari decenni. Anche nei casi recenti ed ancora insoluti, a parte i tranchant giudizi mediatici, il vecchio stile d’indagine, fatta di riscontri, confidenze, appostamenti, si rivela più efficiente di test scientifici, riscontri telefonici e DNA. E non parlo solo di Cogne o di fatti ancora sotto la lente mediatica (il caso Misseri e quello Claps), ma di altri delitti insoluti per carenza di forza indagativa: il caso Bebawai degli anni ’60, l’omicidio, del 1971, di Simonetta Ferrero, quello di Antonella Di Veroli del 1994, quello di Eleonora Scroppo del 1998, di Serena Mollicone del 2001, del giovane medico Attilio Bisaglia del 2004 e… potremmo continuare. Recentemente, quanto ai casi italiani irrisolti, il presidente Napolitano ha parlato di “opacità dello Stato” e, credo, si riferisce anche ad una “opacità” degli organi investigativi. Qualche tempo fa, ancora una volta dalla televisione fatta di plastici e ricostruzione a cui Vespa ci ha abituato, il professor Francesco Bruno ci istruì sul cosiddetto giallo di via Poma e, dalla televisione di Stato, ci ha detto chiaro e tondo, che l’assassino si sa chi è e che il suo nome sta scritto agli atti del processo, e che è stato anche interrogato dai magistrati, non facendo alcun nome, onde non violare la privacy di chi non può comparire. Peccato che la stessa attenzione non sia stata osservata per Nicola Calipari, la cui identità, con tanto di nome e cognome, fu sbattuta su un giornale del Kwait pochi giorni prima che finisse sotto una raffica di fuoco (amico ?). Tornando ì a Francesco Bruno, mi viene da pensare che il poveretto non dorma la notte, se solo ci si ricorda quante volte ci ha detto di sapere chi è il Mostro di Firenze, di sapere dove vive Emanuela Orlandi, di sapere che il piccolo Samuele fu sicuramente ucciso dalla stessa madre a Cogne e tutto questo lo dice nei salotti televisivi, senza che poi si abbia seguito alcuno. E mi viene fatto di pensare anche al caso Pasolini ed ai suoi sviluppi più recenti, con Pelosi che improvvisamente dice: “Non sono io l’assassino di Pasolini: ho mentito perché mi minacciavano…. Non conosco chi l’ha ucciso, e nemmeno so se sono vivi o morti…”. Alla reazione degli avvocati della famiglia Pasolini, in particolare Marazzita, che dopo essersi prodigato, all’epoca del fattaccio, per la rinuncia alla costituzione della parte civile, oggi punta i piedi e vuole il processo a tutti i costi; si da far presumere che i responsabili siano in vita e diversi da Pelosi; ma, soprattutto, sorprendendoci, con la richiesta, oltre a quello di Pasolini di revisione per Moro e Pacciani, uomini e fatti tanto diversi che più non si potrebbe immaginare e senza alcuna relazione con l’assassinio dell’idroscalo. Ma anche questo si vede in Italia, un Paese che dimentica e, tenace, d’improvviso ricorda, muovendosi a tentoni.


30 Marzo 2011

Categoria : Cronaca
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