Spaccato sullo squallore di “cineitalia” (e non solo)


(di Carlo Di Stansilao) – Scritto e diretto da Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, “Boris il fim” mette al centro della trama il regista televisivo René Ferretti (Francesco Pannofino), che dopo tanti anni di fiction decide di “buttarsi” nel mondo del cinema vero, girando il suo primo lungometraggio d’autore. Ci sono scene troppo brutte perfino per un regista televisivo: uno struggente rallenti sulla corsa nei prati di un giovanissimo Joseph Ratzinger che festeggia la scoperta di un vaccino è troppo anche per lui. E sì che di monnezza ne ha girata tanta, narcotizzanti apologie del presente, inquietanti biografie di santi e tante altre ancora (“Caprera”, “La bambina e il capitano”, “Gli amici tassinari”, “Libeccio”). E allora basta. Meglio l’insicurezza economica, meglio il cinema. Meglio tradire tutti – la Rete, la moglie in attesa di alimenti, la impresentabile storica troupe – e buttarsi nel cinema. Tanto più se la sfida è un copione libero, serio, forte, di denuncia. Una satira pungente e drammaticamente realistica che non risparmia nessuno, partendo dal mondo dello spettacolo, per includere l’andazzo dell’intero paese. “Boris il film”, nelle sale dal 1° Aprile (e senza scherzi), è soprattutto una critica feroce nei confronti del cinema italiano, che aspira a una nuova giovinezza e vive invece solo una perenne immaturità. Un mondo in cui, per buona pace dei detrattori a partire da Brunetta, anche con un progetto “alla Gomorra”, bisogna fare i conti con la palude culturale che tutto ingloba. I committenti del salotto buono del cinema si rivelano, alla prova dei fatti, solo diversamente codardi. I nuovi collaboratori solo diversamente inaffidabili. E la presunta grandeur del cinema, una rogna senza fine. Come per una condanna divina, nonostante i suoi lodevoli sforzi, René Ferretti si ritrova tra i piedi la stessa troupe scalcinata di sempre, gli stessi attori cani, gli stessi sceneggiatori inetti e perfino lo stesso borioso capetto d’un tempo. Con lo stesso cast della serie e gli stessi autori che firmano anche la regia, “Boris il film” sembra essere una scommessa vinta, con previsione di grande successo, dopo quella della omonima serie che ha segnato una svolta cruciale nella storia della televisione italiana, diventando un vero e proprio fenomeno di culto, capace di conquistare pubblico e critica con la sua comicità tagliente. Boris, trasmessa su FX (canale 131 di Sky) si è proposta come alternativa alla fiction di produzione nazionale che affolla il palinsesto delle grandi reti generaliste. Per raggiungere questo obiettivo, Boris ha scelto di raccontare vizi (tanti) e virtù (poche) della società italiana odierna focalizzando l’attenzione proprio sul mondo produttivo della fiction italiana. Nel cast tornano tutti i protagonisti della serie, da Carolina Crescentini, la “cagna maledetta”, ossia l’attrice della prima stagione, allo splendido Stanis, ossia Pietro Sermonti a Alessandro Tiberi, lo stagista, più una new entry, Claudio Gioè, attore palermitano, che ha preso parte a film come I cento passi e La meglio gioventù, entrambi diretti da Marco Tullio Giordana; Stai con me di Livia Giampalmo, …e se domani, di Giovanni La Parola, Piano, solo, diretto da Riccardo Milani , e La matassa di Ficarra e Picone, oltre ad essere stato protagonista dei serial “Il capo dei capi”, dove interpretava il boss Totò Riina e “Squadra antimafia” di Piero Bellione, nella stagione 2009-2010. Dei tre autori, Giacomo Ciarrapico debutta cinematograficamente nell’opera prima Piccole anime (1988), dove è anche interprete e, all’interno del quale, prende a piene mani dall’esperienza teatrale dalla quale proviene per divertire il pubblico senza grandi pretese. A distanza di anni, tornerà sul grande schermo con quello che è stato definito “un inquietante clone di Ecce bombo”: Eccomi qua (2003) con Maddalena Maggi, Arnaldo Ninchi e Luca Angeletti. Nel 2006 ha diretto Marco Giallini e Valerio Mastandrea nella miniserie Buttafuori, passando poi al fortunatissimo Boris, nel 2007. Mattia Torre è stato soprattutto un buon attore, con una prova molto convincente proprio in Piccole Anime di Ciarrapico; mentre Luca Vendruscoli (il più anziano, classe 1966), dopo aver lavorato nei primi anni di carriera in teatro, si è trasferito a Roma e diplomato, nel ’91, al Centro Sperimentale di Cinematografia, collaborando con Ciarrapico alla sceneggiatura di Piccole Anime; firmando, sempre nel ’98, lo script di Per tutto il tempo che ci resta (che parla pubblico ministero cinquantenne, lascia deluso e stanco il posto di lavoro in Sicilia e fa ritorno al paese natale in Campania), film diretto da Vincenzo Terracciano ed esordendo alla regia nel 2003, con Piovono mucche, del quale è anche co-sceneggiatore con, tra gli altri, Mattia Torre. Destini più volte incrociati quindi quelli dei tre autori di Boris, che hanno dimostrato, già in tv, che in Italia è possibile realizzare produzioni di qualità, mescolando satira e commedia, condendo il tutto con un pizzico di romanticismo e con molta, surreale follia. Meglio questo che il bello ma decisamente pedante “Noi credevamo” di Mario Martone o il già chiacchieratissimo “Habemus Papam”, già declinato capolavoro (senza essere visto), di Nanni Moretti, con cui speriamo di vincere qualche premio al prossimo Cannes, costato 8 milioni e frutto di sforzi produttivi rari per il cinema italiano, che certamente non sarà privo di atmosfere e momenti classici alla Moretti, ma proprio per questo già vaticiniamo scontato e risaputo. Unico motivo per andarlo a vedere, almeno per noi, è che si è fatto cenno, da luglio scorso, di un chiaro riferimento a Papa Celestino V e la sua storia, che già ha ispirato – da Dante in poi, se si crede a quella interpretazione dei suoi versi – parecchia letteratura, alta o popolare, fino a De Gregori e la sua canzone “Vai in Africa, Celestino”. Ambientato ai giorni nostri, racconta la storia di un Papa umile e incapace di sostenere il peso dell’investitura (come Celestino otto secoli prima) interpretato da Michel Piccoli. Per ragionare sui suoi dubbi e le sue perplessità, sfociate in una specie di crisi di panico, il Papa del film si affida (piuttosto che alle meditazioni di Celestino) a uno psicanalista, interpretato da Moretti stesso. Storia surreale e grottesca, ma che, raccontata alla Moretti, rischierà di schiantarci dalla noia. Insomma, in un’epoca senza risorse, occorre investire suoi giovani, sulle idee, sulle novità. E non è un caso che, negli ultimi tempi, gli esiti migliori vengano da registi giovani e nuovi, come: Garrone, Sorrentino, Vincenzo Marra ed Emanuele Crialese.


29 Marzo 2011

Categoria : Cultura
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