Mondo inquieto: terremoto in Birmania, sommosse in Siria
(di Carlo Di Stanislao) – La terra ha tremato ancora e ancora una volta furiosamente, ieri in Birmania, dove un terremoto di magnitudo 6,8 Richter,ì ha colpito l’Est del Paese, non lontano dal confine con Laos, Thailandia e Cina. La scossa, registrata alle 14.55 ora italiana, a soli 10 km di profondità, ha avuto il suo epicentro a circa 85 chilometri a nord della città i Chiang Rai ed è stata avvertita anche a Bangkok, la capitale. Circa un’ora dopo è stata registrata un’altra scossa di 5.4 gradi di magnitudo. Il bilancio attuale, destinato drammaticamente a salire, è di 75 marte e un centinaio di feriti. In questi ultimi tempi sembra che la terra sia infuriata con gli uomini e il numero di catastrofi naturali ha assunto una frequenza allarmante. Due settimane fa il terremoto con tsunami in Giappone, a fine febbraio, nelle Filippine, la spettacolare eruzione del vulcano Bulusan, che ha messo in pericolo la vita di chi abita nei villaggi dell’area. L’estate scorsa in Pakistan una serie di alluvioni ha colpito quasi venti milioni di persone. E, ancora, alluvioni in varie regioni italiane, compreso il nostro Abruzzo e, due anni fa, il terremoto aquilano e, subito dopo, quello del Cile e di Haiti. Di recente, gli esperti di sicurezza e i responsabili dei piani di emergenza, hanno stilato una lista internazionale dalla quale risulta che i paesi maggiormente esposti ai disastri sono l’Etiopia e il Bangladesh, mentre quelli in cui non ci sono state vittime per alluvioni, siccità, terremoti o altri eventi naturali nell’ultimo secolo sono solo cinque: Estonia, Qatar, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Andorra. Per l’International Disaster Database, poi, la catastrofe naturale che ha causato il maggior numero di morti in Italia, a partire dal Ventesimo secol,o è stato il terremoto di Messina con almeno 75mila vittime, seguito dal terremoto della Marsica del gennaio del 1915 che ha causato trentamila morti. Secondo dati resi noti dall’ INGV e dall’Università di Bologna, negli ultimi due millenni, in Italia, si sono verificati 72 movimenti anomali del mare, così distribuiti: Liguria (14 eventi); Stretto di Messina-Sicilia Orientale-Calabria meridionale tirrenica-Isole Eolie (23 eventi); Adriatico (10); Golfo di Napoli (10); Toscana (3); Sicilia settentrionale (2); Sicilia meridionale (2); Calabria settentrionale ionica (1); Lazio (1). Nel 1783-1784, durante una forte crisi sismica durata oltre un anno, le coste calabresi tirreniche furono interessate da 9 eventi di tsunami seguiti ad alcune delle più forti scosse. Di questi uno è stato il più disastroso, accaduto il 6 febbraio 1783: il terremoto ha provocato il distacco di una grossa parte di una montagna a ridosso di Scilla che è caduta in mare generando un forte maremoto con onde fino a 9 metri sulla spiaggia di Scilla e causando oltre 1500 vittime. Inoltre, come ha recentemente ricordato il geologo Maria G. Gogliandro, da noi la politica sembra disinteressarsi degli evidenti problemi di fragilità del nostro territorio. Siamo infatti una Nazione che vive questi problemi sull’onda dell’emozione a seguito di una emergenza e appena si spengono i riflettori si va avanti dimenticando tutto, dimenticando che l’energia della terra può sgretolare interi paesi come castelli di sabbia, far cadere migliaia di uomini, come soldatini da collezione; che la forza devastante della natura, può mostrare, improvvisamente, come siamo fragile carne in balia degli eventi, una carne più protetta e garantita con scelte costruttive ed ambientali più adulte ed intelligenti. Mentre in Birmania si estraggono vittime dalle macerie e si calcola il numero di dispersi, feriti e altre perdite, il medio-oriente continua ad esserre un terremoto esposto, con scosse crescenti su una polveriera innestata da confessionalismo islamico e desiderio di libertà. Non bastano Egitto e Tunisia alla ricerca di equilibrio e di nuova identità, né la Libia in piena guerra civile a coinvolgimento (di fatto) internazionale, ma anche nello Yemen, in Barhein e soprattutto in Siria, la situazione è davvero incandescente. Quella di ieri, per la Siria, – è stata la giornata più lunga per le manifestazioni contro il regime di Bashar al-Assad, da quando è iniziata l’ondata di rivolte nel mondo arabo, ormai nota come “rivolta del gelsomoni” che, metà febbraio, si era propagata persino in Cina, attraverso il web. Ieri in Siria è stata una giornata di cortei in diverse città, una decina in tutto, dopo che, tre di giorni fa a Daraa, nel sud, una prima protesta di piazza era stata repressa nel sangue. Anche ieri vi sono stati scontri, con polizia che ha sparato sui manifestanti e un bilancio di almeno30 vittime, secondo la tv satellitare al-Arabiya. Gli scontri più violenti sono avvenuti a Samnin, dove si contano almeno 20 morti, a Daraa, dove sono morte almeno due persone e a Damasco dove la polizia ha arrestato una decina di manifestanti. Buthayna Shaaban, consigliere del rais Bashar al Assad, è oggi apparsa in conferenza stampa a Damasco, per leggere un elenco di circa dieci punti di “riforme politiche e sociali decise in seno alla direzione del partito Baath”, riunitosi in via straordinaria. Poco dopo la Tv di stato ha annunciato la scarcerazione di tutti i militanti arrestati durante i “recenti avvenimenti”. Ma l’opposizione ha respinto le aperture del governo, giudicate non sufficienti, e gli oppositori, esuli a Parigi, hanno e auspicato la caduta del regime, chiedendo sostegno all’Europa per rovesciarlo. Su Repubblica Bernardo Valli, ricostruisce la dittatura siriana degli Assad, padre e figlio, che dura da 40 anni e che, secondo le organizzazioni dei diritti umani, ha prodotto non meno di 17.000 vittime. Il capostipite, Hafez el-Assad (Assad I), ribattezzato il Bismark dell’Estremo Oriente, era un uomo freddo e duro, che prese il potere nel 1971, due anni dopo che il colonnello Muhammar Gheddafi. Ed ora il figlio, meno esperto ma non meno duro del padre, Assad Bashar, che si destreggia (o prava a farlo), cercando di rintuzzare una protesta composta da sunniti del Sud del Paese e giovani in cerca di libertà. Da tre giorni Obama ed il suo governo sono in fibrillazione, preoccupati dalla situazione in Libia e nello Yemen, dal recente attentato a Gerusalemme, il primo in 7 anni, che ha causato un morto e oltre trenta feriti e da deterioramento della situazione in Siria, dove il rischio di un’altra guerra civile si aggrava di ora in ora. I rapporti fra USA e Siria sono da tempo ai minimi storici e oggi le politiche statunitensi sulla Siria meritano una revisione sostanziale. La Siria ha svolto un ruolo destabilizzante, a livelli diversi, nelle molte crisi che “martirizzano” la regione – Iraq, Libano, Israele-Palestina – e resta un alleato regionale importante per l’Iran. Benché non sia una protagonista fondamentale in tutti gli scenari, Damasco esercita un’influenza molto importante. La Siria, come minimo, ha intatta la capacità di ostacolare gli interessi americani nel caso in cui senta i suoi minacciati. Dal 2005, poi, dopo l’assassinio di Hariri, i rapporti diplomatici fra i due Paesi erano stati interrotti ma, dal 2007, gli sporadici meetings sull’Iraq, assieme alla partecipazione della Siria alla conferenza di pace israelo-palestinese tenutasi ad Annapolis, hanno evidenziato il tentativo di Washington di attrezzarsi per una nuova fase di dialogo con Damasco. Tuttavia l’Amministrazione Bush è stata ben attenta a non dar alcun segnale di un più vasto ripensamento della politica applicata alla Siria e, ogni mossa verso il dialogo è stata seguita da duri comunicati della Casa Bianca. Nel febbraio 2010, invece, Obama a spedico a Damasco un nuovo ambasciatore, Robert Ford, con l’incarico di riprendere un dialogo complesso e molto difficile. Ora gli USA chiedono che in Siria, come avvenuto, in Egitto, l’esercito resti neutrale e si augurano un cambio di vertice in funzione meno anti-americane e jaadiste. Ancora una volta una politica doppia ed ambigua, che da ragione ha chi sostiene che, dietro alle apparenze, se il terrorismo jaadista ha potuto crescere tanto, bisogna ringraziare anche i servizi e i governi stretti alleati di Washington e quindi soprattutto Israele, i sauditi in primis, con l’espressione di leader addestrati solo a creare terrore e morte, mentre ci vorrebbero al comando uomini come Rabin, ucciso dal fanatismo più bieco, ottuso e spietato.
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