Fratti e gli amanti, pienone a Roma
Roma – (di Goffredo Palmerini) – GRAN SUCCESSO DEL DRAMMATURGO AQUILANO-NEWYORKESE – Tutto esaurito al teatro Agorà80 di Roma, sia alla “prima” del 15 marzo che alle cinque serate di replica di “Amanti”, dramma di Mario Fratti messo in scena da Mino Sferra con la compagnia Menandro. Un grande successo di pubblico e di critica per l’opera dello scrittore aquilano trapiantato a New York da quasi mezzo secolo, uno dei più affermati autori di teatro viventi. Come al solito un dramma dalle emozioni forti, dal ritmo intenso, con un dialogo secco e tagliente, senza fronzoli e affabulazioni. L’autore non indulge mai a circonlocuzioni retoriche, questo è lo stile drammaturgico di Fratti così tanto apprezzato in America, dove il teatro europeo ha sempre difficoltà ad affermarsi per la lentezza, la figurazione e la prolissità della scrittura. Fratti, invece, scrive teatro come piace agli americani, ma lo condisce con la sapienza antica della vecchia Europa, con quel quid in più che sfugge anche ai più valenti autori d’oltreoceano, per il retaggio più recente della loro cultura, e lo connota con soluzioni sempre imprevedibili. Ogni dramma di Fratti si chiude in maniera sorprendente. Anche per “Amanti” vale questa regola. Due atti e solo quattro personaggi, tre donne e un uomo. Lo stesso regista, Mino Sferra, cimenta il suo talento anche come attore. Incalzante la trama, tutta concepita sul piano delle passioni portate all’estremo, fino al delitto. Anzi ai delitti, due uccisioni. Si tratta d’un testo coinvolgente, come d’altronde tutte le opere del grande autore d’origine aquilana. Un thriller ambientato a New York, dove l’uomo è solo un pretesto che introduce un tentativo di triangolazione. Gelosia, passione, egoismo e morte sono gli ingredienti d’una intricata storia d’amore: il dramma, nella sua crudezza, fa meditare sull’impossibilità d’imprigionare i sentimenti entro schemi affettivi e concettuali logici. A volte una passione senza inibizioni di sorta può travolgere e percorrere strade inimmaginabili.
Venuto apposta dagli States, alla “prima” è presente Mario Fratti. Non voglio mancare l’appuntamento – l’opera è per la prima volta rappresentata in Italia – anche per salutare l’insigne concittadino. Non lo vedo dallo scorso ottobre quando a New York, in occasione del Mese della Cultura italiana, egli prese parte con Letizia Airos alla presentazione del mio ultimo libro “L’Aquila nel mondo” a Casa Zerilli Marimò della New York University. Fu un eccezionale anfitrione nell’ambiente culturale americano, facendomi vivere dal di dentro il teatro a New York, specie con una rassegna sui nuovi autori italiani da lui stesso promossa off Broadway. Non ho indugiato, dunque, a partire dall’Aquila, il 15 marzo scorso, per arrivare per tempo a Roma, nel cuore di Trastevere, al teatro in via della Penitenza, anche per parlare un po’ con l’autore e il regista. Sono già lì un’ora prima dello spettacolo. Fratti è arrivato in Italia da un paio di giorni, sta da suo fratello Fernando, nei dintorni di Roma, ma già l’indomani deve ripartire per New York dove, nell’auditorium della prestigiosa Scuola d’Italia “Guglielmo Marconi”, il 17 marzo va in scena il suo atto unico “Garibaldi” nel quadro delle celebrazioni del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, alla presenza del Console Generale d’Italia, Francesco Maria Talò, del direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, Riccardo Viale, degli esponenti della comunità italiana e degli studenti di tutte le scuole italiane nell’area metropolitana della Grande Mela. Un evento eccezionale, se non altro perché lo stesso autore, Mario Fratti, interpreta il ruolo dell’Eroe dei due Mondi, anziano a Caprera.
Lo trovo al desk del teatro che parla con Mino Sferra, il regista. Mi vede e gli vado incontro. Mi abbraccia, è una sorpresa per lui. Avevo avvisato solo il regista, che conosco dal 2004, quando al Teatro dell’Orologio mise in scena “Cecità”, altro famoso dramma di Fratti sulla guerra in Iraq, poi rappresentato nei teatri di mezzo mondo. Con Mario Fratti c’è grande complicità, specie dopo aver passato nove giorni con lui a New York, avendomi egli pressoché imposto l’ospitalità in quella sua splendida casa museo sulla 55^ Strada, a due passi da Broadway e Central Park. E’ singolare che la differenza d’età, più di vent’anni, scompaia nel rapporto con questo straordinario “giovanotto” ottantaquattrenne (Mario Fratti è nato all’Aquila il 5 luglio 1927) che mantiene un’invidiabile forma fisica, non teme di camminare, si nutre giorno e sera di teatro, sia come autore che come critico teatrale per il più diffuso quotidiano italiano in America. Giornate intense le sue, tra scrittura e i teatri di Broadway, o gli eventi della vita culturale di New York dove è frequentemente richiesto. Ma quel che più mi sorprende è la sua curiosità culturale, l’attenzione verso i nuovi linguaggi, il gusto per le espressioni artistiche più innovative. Avvicina, sostiene e incoraggia le avanguardie, in campo teatrale e nelle altre discipline dell’arte, con un’apertura incredibile, diversamente da tanti scrittori ed artisti che l’età avanzata sovente rinchiude nei recinti dell’esistente e che storcono il naso alle sperimentazioni più o meno ardite delle nuove generazioni. Insomma, il valore e la freschezza intellettuale fanno di Mario Fratti una personalità d’indubbio rilievo nella cultura mondiale. D’altronde non c’è altra chiave di lettura, se non in questa duttilità di pensiero, alla capacità di Fratti di cogliere tutti gli aspetti della cultura e della società americana, trasponendoli nelle sue opere con quella sensibilità che è paradigma del suo successo. Ciò che in America non è capitato neanche a sommi autori del teatro europeo quali Sartre, Brecht, Anouilh, Ionesco, Pirandello. Persino Arthur Miller e Tennessee Williams hanno conosciuto gloria postuma.
Al riguardo, l’analisi più lucida sul fenomeno Fratti l’ha vergata qualche anno fa Paul T. Nolan, docente all’University of Southwestern Louisiana. Descrivendo la storia della letteratura drammatica in America, che ha le sue punte d’eccellenza in Eugene O’ Neil, Edward Albee, Arthur Miller, Thornton Weilder e Tennessee Williams, Nolan rileva come per loro il successo sia arrivato assai tardivamente. D’altro canto il teatro europeo è stato sempre molto ammirato e visto con rispetto negli States, sebbene gli autori europei, anche di prima grandezza, non sempre vi abbiano avuto fortuna. “… Questa bizzarra relazione tra il teatro americano e quello europeo – annota Nolan – sembra aver stabilito la regola secondo cui il drammaturgo europeo ha la sua reputazione in America solo se resta “europeo”. Fortunatamente per il dramma moderno, Mario Fratti ha spezzato questa regola con gran successo. Ha dimostrato che può fondere gli elementi della sua tradizione europea con l’esperienza americana, creando un tipo di dramma che fa onore ad entrambi i continenti. I futuri storiografi teatrali indicheranno probabilmente nella sua carriera di drammaturgo l’importante inizio di una nuova fase: lo sviluppo di una comunità teatrale veramente internazionale. (…) Il teatro americano vorrebbe rivendicare Fratti come autore proprio, sebbene egli abbia mantenuto finora la cittadinanza italiana. In un certo senso Fratti è un autore americano: appartiene all’America in maniera in cui altri autori europei, come Cechov, Ibsen e perfino Shaw, non potranno mai appartenere, perché egli è diventato parte della vita americana coscientemente, volontariamente e con simpatia. D’altronde Fratti – aggiunge Nolan – scrive come nessun autore americano potrà mai, perché porta alla sua comprensione della società americana non solo la compassione e l’indignazione morale di ogni uomo sensibile, ma anche la caratteristica tolleranza e rassegnazione che è presente in scrittori associati in un’antica civiltà. Egli mette anche nei suoi drammi americani qualcosa di più vasto e di differente di quanto si trovi nei lavori di O’Neil, Miller e Williams; ci indica qual è il posto della società americana oggi nel mondo. E, stranamente, Fratti mostra spesso più fede nel sogno americano di quanta ne abbiano gli autori locali, una fede fatta di tolleranza e di pazienza. Mario Fratti (…) sta aiutando gli americani a scoprire il loro paese”.
Eppure l’arrivo di Fratti negli Stati Uniti fu quasi dovuta al caso. Nel 1962, al Festival dei due Mondi di Spoleto, si rappresentava il suo dramma “Suicidio”. L’opera piacque molto a Lee Strasberg, personalità indiscussa del teatro mondiale, che la volle portare a New York, all’Actor’s Studio. E fu l’apoteosi, in quel crogiolo delle avanguardie teatrali. Da allora per Fratti è stato un crescendo di successi e prestigiosi riconoscimenti per molti dei suoi lavori teatrali, come il premio Selezione O’Neil, il Richard Rogers, l’Outer Critics, poi ben 8 Dama Desk Awards e sopra tutto 7 Tony Award, che per il teatro sono come gli Oscar per il cinema. Ora le sue opere teatrali – una novantina di drammi, commedie e musical – sono tradotte in ventuno lingue e rappresentate in più di seicento teatri nel mondo, sparsi nei cinque continenti. “Nine”, liberamente ispirata al capolavoro “8 e mezzo” di Federico Fellini, è diventata un musical con un enorme gradimento di pubblico, per anni rappresentato in migliaia di repliche. Due anni fa Rob Marshall ne ha fatto un film, con un eccezionale cast d’interpreti, come Nicole Kidman, Penelope Cruz, Sophia Loren, Marion Cotillard, Judie Dench e Daniel Day-Lewis. Ma non ha avuto la stessa fortuna del musical e Fratti è davvero contrariato per come il regista ha manomesso la sua opera, specie nel finale.
Approfitto di quest’ora di tempo per fare qualche domanda a Mario Fratti, chiedendogli proprio un giudizio sulla trasposizione cinematografica del suo musical “Nine”.
“La mia commedia Sei Donne Appassionate è stata rappresentata nel 1974 a New York. Il liricista di “Chorus Line”, Ed Kleban, vide lo spettacolo e mi propose di farne un musical. Mi presentò un giovane compositore di talento, Maury Yeston, con il quale ho lavorato quasi sette anni. Così nacque il mio Nine. Vincemmo insieme alcuni premi e finalmente trovammo produttori e regista. Debutto nel 1982, un grande successo durato anni. Riguardo al film di Rob Marshall, sono deluso perché il regista non ha usato le tante mie singolarità creative che hanno portato al successo il musical. Il film tenta di riprodurre l’originale “8 e mezzo” di Fellini. Ha cambiato il testo e omesso il mio finale, che era molto diverso e sorprendente. Rob Marshall ha fatto a modo suo. Il pubblico ha capito che Fellini non può essere replicato, di Fellini ce n’è stato uno solo, straordinario ed irripetibile”.
Il 17 marzo sarai l’Eroe dei due Mondi nel tuo atto unico “Garibaldi”. Com’è nato?
“L’ho scritto tre anni fa. Me lo chiesero all’università, si rappresenta spesso. Garibaldi è molto amato in America, affascina i giovani. E il 17 marzo lo interpreterò io, per l’occasione. Due soli i personaggi: c’è una donna che va a Caprera ad intervistare l’anziano condottiero. L’Eroe ci va naturalmente a letto, il suo fascino è sempre vivo, e alla fine si fanno commenti sulla notte passata e poi sulla sua vita. Il mio Garibaldi è un bella figura d’uomo, adora l’Italia, odia il papa e il clero perché contrari all’unità d’Italia. Ha avuto molte donne, nell’opera l’Eroe le ricorda tutte. Tante passioni per un uomo diventato un simbolo, una specie di padreterno che le donne desiderano. Ma in fondo un solo grande amore, anzi due, Anita e l’Italia. Ho messo tutto nel personaggio. Garibaldi ammette molti errori, come quello del suo matrimonio. E’ interessante dal punto di vista umano, perché è un uomo che ammette gli errori e le sue colpe, inveisce contro la Chiesa e contro Cavour che ha regalato Nizza alla Francia. In genere scrivo pochissimi monologhi come questo, ma il fine lo giustifica. Per celebrare il 150° dell’Unità d’Italia, per tutto l’anno, ho messo liberamente il mio “Garibaldi” a disposizione di chiunque voglia rappresentarlo, in Italia o all’estero, senza pagamento dei diritti d’autore”.
Come la comunità italiana in America sta vivendo il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia e come vengono giudicate all’estero le polemiche in Italia sulle celebrazioni?
“A New York, ma anche in tante altre città americane, stiamo organizzando bellissime iniziative con la partecipazione delle nostre autorità diplomatiche e dell’intera comunità italiana. Un segnale forte per dimostrare il nostro orgoglio, l’amore per l’Italia unita e per la sua cultura. Un segnale che intende far comprendere in Italia che è inconcepibile disertare le celebrazioni come sta facendo la Lega, un partito che sta al governo e che tenta di dividere gli italiani”.
Cosa tiene così fortemente legati gli italiani all’estero?
“Intanto la memoria dei sacrifici affrontati per affermare la nostra dignità, conquistandoci la stima con il lavoro e con l’ingegno. Il nostro comportamento ci ha fatto apprezzare dagli americani, che così hanno stimato di più anche l’Italia. Ci lega poi la nostra cultura: nelle università si ama moltissimo il romanzo italiano, la poesia italiana, il teatro italiano, l’arte di cui l’Italia è così ricca. L’Italia è una grande nazione. Ma negli ultimi tre anni, con Berlusconi, è diventato veramente imbarazzante quando ci chiedono come sia possibile che a guidare il governo ci sia un personaggio così discutibile per la sua vita privata e nell’etica pubblica. E’ per noi un’umiliazione ogni volta che ci chiedono ragione di cosa accade in Italia. Anche gli italo-americani che hanno tendenze politiche di destra si vergognano per i suoi comportamenti”.
Ecco Mino Sferra, regista del dramma ma anche attore. Gli chiedo notizie sui personaggi di “Amanti”.
“Io interpreto Eugene, marito disordinato, egoista, superficiale, poco attento ai sentimenti coniugali. Roberta Cataldi è Marisa, la moglie di Eugene, donna insoddisfatta della vita matrimoniale, fragile, sensibile e vulnerabile. Valentina Corti è Tess, amante di Marisa, donna rampante e vissuta, sebbene di giovane età, capace di grandi passioni. Fabiola Gentilucci è l’interprete di Ursula, una detective, ex amante di Tess, donna caparbia, senza scrupoli, calcolatrice, con una forte dualità. Tutto è coacervo di passioni forti e contrastanti”.
Perché tra tante opere drammatiche di Fratti hai scelto proprio “Amanti”?
“L’ho scelta perché propone tematiche attuali, a tinte forti. Forse è l’unico testo di Fratti in cui l’omosessualità femminile viene espressa con una certa chiarezza. Fratti è un attento osservatore del mondo femminile e riesce a coglierne più di altri autori gli elementi psicologici. L’amore tra donne porta a considerare che i sentimenti non conoscono ostacoli, che l’amore è universale in tutte le sue manifestazioni, compreso il delitto passionale. Il testo fa peraltro riflettere sull’uso delle armi, libero in America, che favorisce chi voglia spingersi a compiere un reato”.
Nel 2004 hai già messo in scena un’altra commedia di Fratti,“Cecità”. Che cosa trovi nell’autore?
“Fratti lo trovo molto originale, sa trattare argomenti a 360 gradi, spaziando dalla politica – vedi “Cecità” – alla condizione umana, e lo fa sempre prendendo spunti dalla vita reale. L’autore contemporaneo è essenzialmente un passionale. E infatti al centro dei suoi testi c’è sempre l’uomo, con le sue debolezze e il suo vissuto. Ma quello che più mi colpisce sono gli epiloghi, i finali mai scontati e sempre avvincenti, come i suoi personaggi”.
Cos’ha Eugene in comune con Mino Sferra?
“Beh, direi nulla. Eugene è un superficiale, poco attento a quello che gli gira attorno, pensa solo al lavoro e trascura la bella moglie. Io sono un po’ all’antica, prima la famiglia e poi tutto il resto. Amo il mio lavoro e sono molto meticoloso. Ecco, forse una cosa in comune l’abbiamo, sono un po’ disordinato. Mai sul lavoro, però”.
Ora però si va in scena. Lo spettacolo inizia, avanza nella suspence. Poi il finale, inatteso, e il lungo applauso a scena aperta. Ancora un successo. Mario Fratti sale sul palcoscenico, ringrazia il pubblico, gli attori, il regista: “Tutti bravissimi, spettacolo magnifico!” Mino Sferra mi ha detto ieri che lo spettacolo è già stato richiesto a Caserta e Velletri, per la prossima estate.
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