Felicità e silenzio per imposizione


(di Carlo Di Stanislao) – Lasciando da parte l’ingarbugliata e tragica situazione in Libia, con Gheddafi tutt’altro che sconfitto ed anzi passato al contrattacco e la non meno pasticciata situazione italiana, fra affastellamenti di proposte salva-premier in parlamento, “svendopoli” romana che fa il doppio alla “affittopoli” milanese di qualche giorno fa ed allinea il centro-sinistra ai sospetti di favoritismo corrotto del centro-destra e, ancora, la corsa alla lottizzazione, fra Lega e Pdl, ai posti di manager di grandi industrie con partecipazioni statali, con scadenza al 4 aprile; l’argomento del giorno è il discorso con cui il premier cinese Wen Jiabao, ha inaugurato la sessione plenaria annuale dell’Assemblea Nazionale Popolare (il Parlamento cinese), che lavorera’ per le prossime due settimane ed in cui ha parlato di necessaria stabilità, di armonia sociale ma, soprattutto, di strategie per contenere l’inflazione e ridurre il dispendio energetico e l’immissione di ossido di carbonio. Secondo il vecchio stile comunista, il tema centrale (in apparenza), è stata “la felicità”, ma dietro alla facciata vi era, molto evidente, la buona sostanza delle scelte attraverso cui saranno definiti gli obiettivi sociali ed economici del Paese per i prossimi cinque anni. “Dobbiamo far sì – ha detto il premier – che il miglioramento della vita della gente sia un perno che leghi riforme, sviluppo e stabilità, ed essere sicuri che le persone siano contente della propria vita e del proprio lavoro, che la società sia tranquilla e ordinata e che il Paese goda di una pace duratura e di stabilità”. Nei prossimi cinque anni la Cina punterà a un’ambiziosa trasformazione: passare da un’economia dipendente dagli investimenti statali a un’economia guidata dal consumo. “Adatteremo la distribuzione delle entrate in una maniera ragionevole. Questo è un compito a lungo termine, ma anche una questione urgente che dobbiamo affrontare ora”. Questo ha ribadito Wen Jiabao, aggiungendo che il governo di Pechino aumenterà progressivamente i salari minimi, le pensioni, i sussidi, così come la spesa per l’assistenza sanitaria. “Attraverso un impegno continuo – ha proseguito Wen Jiabao – annulleremo la tendenza a una crescente differenza degli stipendi e assicureremo che le persone condividano maggiormente i frutti delle riforme e dello sviluppo”. Intanto, nella vicina piazza Tienanmen, la polizia ha portato via almeno otto persone, probabilmente tra coloro che sono arrivati a Pechino dal resto della Cina per manifestare durante i dieci giorni della riunione parlamentare. La sicurezza è uno dei temi chiave del governo cinese, anche in seguito agli appelli diffusi via internet affinché la popolazione cinese prenda spunto dalle rivolte di Tunisia ed Egitto e manifesti. Un nuovo appello diffuso in questi giorni ha chiesto ai manifestanti di riunirsi domani. Sarebbe la terza domenica consecutiva di dimostrazioni, benché le prime due abbiano attratto spettatori, giornalisti e polizia, ma pochi manifestanti in totale. L’editoriale del Quotidiano di Pechino (Beijing Ribao) ha ammonito oggi la popolazione a non partecipare alle proteste contro il governo, proteste ispirate dalle sommosse in corso in Medio Oriente e per questo definiti “raduni del gelsomino”. Da due settimane, invece, i siti internet con sede all’estero lanciano appelli ai cinesi perchè si radunino ogni domenica in alcuni luoghi delle principali città del Paese per protestare in modo pacifico contro la corruzione e chiedere maggiore trasparenza e libertà. Un forte dispiegamento delle forze dell’ordine ha impedito nelle scorse settimane che si tenessero questi raduni, in particolare a Pechino e Shanghai. Intervista giorni fa da Radio Vaticana, Ilaria Maria Sala, inviata a Pechino del quotidiano “La Stampa”, ha detto: “Ogni tipo di protesta organizzata è un qualcosa che la Cina cerca di avere il meno possibile. Ciò detto, manifestazioni in Cina ce ne sono tutti i giorni, ma sono quasi sempre legate a dei problemi molto locali. Per cui si assiste a manifestazioni di lavoratori, di operai per vari tipi di problemi legati direttamente al lavoro, ai salari, alle condizioni in fabbrica e così via. Pur essendo un avvenimento molto frequente, è qualcosa che Pechino cerca di controllare il più possibile e mantenere localizzato, per evitare appunto che delle proteste possano diffondersi su larga scala ed agglomerare invece scontento a livello nazionale. Per cui, le manifestazioni legate a questa “rivoluzione dei gelsomini” rappresentano un rarissimo esempio di un tentativo di scendere in piazza a livello nazionale non più per delle cause specifiche – se vogliamo, anche materiali – ma per degli ideali: quindi maggiore democrazia, maggior trasparenza, minor corruzione, che sono fra l’altro gli stessi temi portanti che si erano avuti nel 1989, quando c’erano state le manifestazioni di piazza Tien’anmen. Malgrado la maggioranza dei cinesi sia consapevole del fatto che delle manifestazioni di questo tipo presentano dei rischi personali molto grandi, c’è stata una risposta piuttosto pronta sul territorio. Internet è stato il veicolo principale ed unico. La rivoluzione nelle comunicazioni è ormai un dato di fatto, per cui per le persone questo è un modo pratico ed accessibile per diffondere su scala nazionale delle informazioni o, appunto, delle mobilitazioni”. Il 3 marzo scorso, AsiaNews, ha informato il mondo che altri tre attivisti sono stati arrestati in Cina, per paura che potessore istigare o fomentare proteste analoghe alla Rivoluzione dei Gelsomini. . Il China Human Rights Defenders ha riportato che l’attivista Wei Qiang è da giorni incarcerato dalla polizia del distretto di Haidian (Pechino) per il solo “sospetto” di avere partecipato a una “protesta illegale”. Il 20 febbraio ha registrato e trasmesso con il suo account di Twitter scene prese davanti al McDonald di Wangfujing, uno dei luoghi indicato da anonimi su internet per scendere in piazza. In realtà non c’è stata nessuna protesta. Ma la polizia, presente in forza, lo ha arrestato. Pure da giorni la polizia ha arrestato Wang Chengming di Guiyang (Guizhou). La moglie ignora l’accusa e non le è permesso di vederlo. Quan Lianzhao, 60 anni, autrice di petizioni, è stata presa dalla polizia a Pechino il 26 febbraio e “riportata” con la forza a Nanning (Guangxi), dove l’hanno incarcerata per “sovversione contro il potere statale”. Il 20 febbraio, giorno indicato su internet per fare proteste spontanee, era presente al Parco Chaoyang di Pechino, dove peraltro non c’è stata alcuna protesta. Il 1° marzo il governo municipale di Pechino ha annunciato che attuerà il progetto Information Platform of Real-time Citizen Movement, in grado di controllare gli oltre 20 milioni di abitanti per l’intero giorno, in qualsiasi loro attività, verificandone la posizione tramite i telefoni cellulari. In questi giorni su internet c’è un nuovo invito a protestare domenica 6 marzo in 23 grandi città, mentre, come già detto, oggi il governo centrale ha proibito ai giornalisti esteri di recarsi senza permesso nella popolare zona di negozi Wanfujing a Pechino, indicata tra i luoghi di protesta e dove il 27 febbraio la polizia ha aggredito un gruppetto di giornalisti stranieri. Ieri il ministro cinese degli Esteri ha biasimato i giornalisti per avere creato “confusione”, non rispettando le regole e fermandosi senza ragione in una strada affollata. E’ pure loro proibito fare fotografie e fermare persone creando assembramenti “senza autorizzazione”. I nuovi inviti alla protesta, sono stati diffusi attraverso Facebook, Twitter e altri social network oscurati in Cina, ma ai quali molti riescono ad accedere, eludendo la censura, attraverso i server stranieri. Sarebbe la terza protersta in pochi giorni e la tensione e palpabile in tutte le città cinesi. A Pechino, due troupe televisive tedesche sono state trattenute in stato di fermo per diverse ore e tre giornalisti italiani sono stati convocati d’urgenza alle stazioni di polizia per un promemoria “sulle norme vigenti per i media stranieri”. Nel frattempo, sul piano internazionale, oltre a guardare con grande interesse al petrolio libico la Cina torna a parlare con il Giappone, puntando sul “dialogo strategico” dopo una pausa, dal giugno 2009, gettando le basi di un confronto per superare la crisi diplomatica scoppiata a settembre 2010 sulla sovranità delle isole Senkaku, nell’estremo sud di Okinawa. L’occasione è stata la riunione a Tokyo tra il vice ministro giapponese degli Esteri, Kenichiro Sasae, e il collega cinese, Zhang Zhijun: d’accordo sul fatto che Giappone e Cina dovranno fare di più per “consolidare la fiducia reciproca approfondendo la cooperazione in vari settori e risolvendo questioni delicate”, in vista del 40esimo anniversario, nel 2012, della normalizzazione delle relazioni bilaterali. I due vice ministri, inoltre, hanno ribadito il proposito di lavorare di comune accordo per un vertice trilaterale da tenere a maggio a Tokyo, tra Cina, Giappone e Corea del Sud. Ciò che è certo è che in Cina In Cina non vi è garanzia di libertà e le cose non vanno affatto bene, nonostante sulla Stampa sembri il contrario. Un esempio su tutti: a metà febbraio viene licenziato Liu Zhijun, il potentissimo ministro delle ferrovie. I nuovi treni, velocissimi e tecnologici, sono il simbolo del miracolo cinese. Un investimento di 750 miliardi di dollari che nella storia dell’umanità può essere paragonato solo alla ferrovia che collegò il West americano (nella cui epica costruzione, ironia della sorte la stragrande maggioranza della manodopera era cinese). Persino Barack Obama ha citato questa enorme impresa nel suo recente discorso sullo Stato dell’Unione. Ma che qualcosa non andasse lo si poteva capire dalle cifre: un miglio di ferrovia cinese costa sui 15 milioni di dollari, mentre la stessa misura negli Stati uniti varia tra i 40 e gli 80 milioni. E non è questione di manodopera a buon mercato. Il licenziamento del ministro ha scoperchiato un pentolone di corruzione. I treni cinesi ad alta velocità viaggiano su un’infrastruttura debolissima: il materiale base delle ferrovie, la cosiddetta fly ash (cenere volante, un residuo della combustione del carbone) prodotta in tutta la Cina non sarebbe stata sufficiente per il numero di miglia costruite. Quindi se ne è usata di meno e quindi molto presto si cominceranno a vedere cedimenti strutturali.
Per la Cina rischia di essere un disastro. Interno perché i cinesi, con più soldi, si muovono sempre di più. E internazionale perché contratti importanti sono già stati firmati con l’Iran, la Russia, la Turchia e persino con lo stato della California. Il ministro è accusato di corruzione, che è la pratica più diffusa tra i tecnocrati comunisti, ma è anche (e i dirigenti cinesi ne sono ben consapevoli) l’anello debole che rischia di far saltare lo stesso regime dall’interno, molto più dei suoi dissidenti. Le ferrovie cinesi hanno molto a che fare con la democrazia e con la libertà in Cina, più dei gelsomini. Ma tutto questo non scalfisce l’immagine “eroica” che l’Italia continua a perpetuare del miracolo cinese. Ne è un esempio, purtroppo, la visita di ottobre del presidente Napolitano. Inoltre, come ricorda su Europa Marco Sotgiu, mentre nel passato i cinesi incarceravano i dissidenti, oggi fanno sparire anche i loro familiari e amici. Che fine ha fatto la moglie del premio Nobel Liu Xiaobo? Non lo sappiamo, incarcerata o reclusa da qualche parte, il suo ultimo messaggio clandestino è stato “aiutatemi sono tenuta in ostaggio»” Ostaggi sono i suoi familiari, molti suoi amici. Mentre il marito Liu Xiaobo sconta una lunghissima condanna in carcere. È un passo avanti? Un tempo la Cina vantava un primato: il più giovane prigioniero politico al mondo. Un bambino tibetano, colpevole di essere stato riconosciuto come la reincarnazione del Panchen Lama da parte dell’esiliato e odiato (dai cinesi) Dalai Lama, è agli arresti dall’età di sei anni. Quel primato la Cina non ce l’ha più perché Gedhun Choekyi Nyima dal 1995 non è più stato visto e quindi oggi di anni ne ha 22 e dall’Iran alla Birmania di prigionieri politici più giovani di lui ce ne sono a bizzeffe. I “passi avanti” sulla strada dei diritti umani in Cina sono stati così impetuosi in questi anni che è praticamente scomparsa la repressione della polizia, sostituita da bande civili armate di bastoni e manganelli che si aggirano per il paese (ovunque ci sia un dissidente da pestare o far sparire) svolgendo silenziosamente e in maniera estremamente efficace il lavoro sporco che una volta era degli agenti in divisa. Questo miracolo cinese di silenzio e felicità imposti, davvero non deve essere esportato come modello da imitare, né preso come esempio di virtuoso sviluppo futuro.


05 Marzo 2011

Categoria : Cronaca
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