L’Aquila, noi, non la rivedremo
(di Gianfranco Colacito) – Riunioni. Tavoli, come si dice e stradice oggi. Parole, scetticismi, prudenze e sparate imprudenti. La sola verità è che la ricostruzione “pesante”, quella della città e dei centri storici nei dintorni (oltre sessanta frazioni, un’area urbana diffusa e sparpagliata come una minimetropoli), non c’è. E neppure c’è una data certa, un tempo di inizio e un tempo – ragionevolmente esteso – di completamento. Per ora, solamente parole e sicuramente (da parte di qualcuno, almeno) buone intenzioni. Cuori gonfi di angoscia che con il tempo aumenta, si consolida, prende corpo, e si illude in soprassalti di buone intenzioni. Ma fatti concreti, neppure uno. La sola cosa ricostruita è l’Anas, insieme con qualche donazione della Caritas. E’ questa la melanconica convinzione che si fa strada nella consapevolezza dei più. I giovani, bene, quelli si adatteranno, accetteranno qualche tensostruttura e qualche luogo di aggregazione e di sballo. Ma i meno giovani non percepiscono spiragli, piccoli spazi di speranza, pure illusioni a questo punto. L’Aquila, noi che siamo avanti nel cammino della vita, non la rivedremo com’era, ma neppure in approssimazione. Neppure in parte. Se mai, davvero, ci saranno ancora un cardo e un decumano lungo i quali illudersi di riavere una città , saranno cortine dietro le quali si nasconderà il nulla. Un po’ come Venezia, splendida allegoria della morte dietro le facciate ornate dei palazzi con i merletti di pietra, gli ori e gli stucchi insidiati dall’acqua marcia che sciaborda tra muschi, corruzione fisica, putridume d’autore. Se non sarà così, ci saremo sbagliati, e saremo felici di esserci sbagliati. Ma il tempo fugge, sono già due anni, e vediamo solo baracche, alveari, capanne e finestrelle dalle quali, patetici, spuntano vasetti di fiori e macchie di colore. Sforzi di vita, singhiozzi di normalità . Speranze che pian piano di spengono come mozziconi di candele.
Non c'è ancora nessun commento.