Cinema – La provincia americana in due film che gelano
(di Carlo Di Stanislao) – Ha trionfato sia al Sundance che al Gotham Independent Film Awards, battendo avversari agguerriti come Black Swan, Let Me In, I ragazzi stanno bene e Blue Valentine. Diretto dalla regista indipendente Debra Granik (al secondo lungometraggio), “Winter’s Bone” (da noi “Un gelido Inverno”), racconta di Ree Dolly, una diciassettenne cresciuta troppo in fretta ed alla disperata ricerca di suo padre, Jessup, che ha ipotecato la casa per pagarsi la cauzione ed uscire di prigione. Ree accudisce i due fratellini e la madre malata: se suo padre non si presenta in tribunale resterà, oltre che senza soldi, senza casa. Monti Ozark, Missouri, profonda America del Mid-West, povertà e un padre che entra ed esce dalla galera. Malgrado il suo aspetto esile e delicato, sulle spalle di Ree grava il peso di essere l’unica persona “adulta” e responsabile nella sua famiglia e l’assoluta necessità di ritrovare suo padre, per non perdere la casa ed evitare l’adozione dei fratellini che accudisce come una madre amorevole. Ree inizia a cercare il padre all’interno di una comunità che, protetta dai boschi e dalle montagne, è quasi interamente coinvolta nella produzione di cocaina. Per salvare casa e famiglia affronta violenza e omertà, mostrando la propria determinazione e una incrollabile forza di volontà. Sceneggiato dalla Granik e da Anne Rossellini (alla sua prima grande prova), “Un gelido inverno” è un film duro e cupo, critica ad una nazione dove vige la legge del più forte, con una splendida fotografia e precisi movimenti di macchina, che enfatizzano il racconto di una vita miserabile, dove non c’è alcun posto per la speranza o la possibilità di riscatto. Vera sorpresa della pellicola risulta essere la giovane Jennifer Lawrence (“The Burning Plain”), che riesce da sola a sviluppare e ad arricchire una sceneggiatura a tratti forse troppo semplice e scontata. Il film, nonostante conti su un budget irrisorio, vanta un’importante colonna sonora, firmata da Dickon Hinchliffe, fondatore della band inglese “Tindersticks”. La soundtrack comprende anche un brano originale dell’attore John Hawkes (“Miracolo a S. Anna”, “S. Darko”). Un racconto tutto “in levare”, con la sceneggiatura che spiega poco o niente, mentre la macchina da presa scava dentro la determinazione e la cocciutaggine di chi sa di non aver nulla da perdere e per questo trova il coraggio di sfidare l’omertà di tutta una comunità. Anche Small Town Murder Songs (Canzoni d’omicidio in una cittadina) di Ed Gass-Donnelly è ambientato in una piccola comunità dell’Ontario, impregnata di religiosità: viene trovato il corpo di una ragazza nuda e lo sceriffo locale si convince che solo “prendendo su di sé” il suo passato di violenze (e peccati) potrà riuscire a stanare il colpevole. Così la soluzione del giallo diventa una specie di personalissima via crucis (il film è scandito da massime bibliche) dove un ottimo Peter Stormare dà vita a un poliziotto che sembra uscito da un romanzo di Flannery O’Connor, mentre il film offre allo spettatore il quadro di una provincia lontanissima dagli stereotipi di tanto cinema hollywoodiano. La cinica, feroce violenza della provincia americana è tema del cinema e della letteratura statunitense, fondante nei romanzi di Faulkner, Steinbeck, McCarthy, Harrison, Gifford e Lansdale, presente in tanto ottimo cinema, sino a “Non è un paese per vecchi”, dei fratelli Coen, del 2008. Perdersi nella provincia americana vuol dire cominciare a percepire un senso di inquietudine, di sotterranea follia che può esplodere da un momento all’altro. E’ una condizione critica, di sospensione, uno stato borderline, descritto superlativamente da David Lynch, ad esempio in “Velluto blu” e “Twin Peaks”. Un brano melodico anni ’50 accompagna lo sguardo dal cielo ad un curato cespuglio di rose che costeggia uno steccato bianco; sulla strada passa un camion rosso con un pompiere sorridente; un altro cespuglio, stavolta di tulipani gialli, oscilla al vento; un’ausiliaria del traffico, anche lei felice e sorridente, aiuta i bambini delle elementari ad attraversare la strada; poi, un bel villino bianco a due piani, con tetto spiovente, giardino e garage di fianco; un uomo anziano innaffia il prato con un tubo, mentre la moglie, in casa, sorseggia placidamente un tè davanti alla tv. All’esterno, il rubinetto, che sta fornendo acqua al sifone per innaffiare, comincia a perdere; il sifone stesso si incastra in una pianta: l’uomo cerca di liberarlo, ma improvvisamente viene preso da un attacco cardiaco e comincia a rotolarsi a terra, in preda a convulsioni. Continua a stringere nelle mani il sifone, con il suo cagnolino che tenta di bere l’acqua che ancora schizza via, impazzita. Un bambino di pochi anni zampetta lì vicino. Siamo vicini all’uomo, immobile nell’erba e nel fango, poi il nostro sguardo si perde tra i fili d’erba, sempre più giù, dove un branco di insetti neri vaga convulsamente, il loro rumore sovrasta il silenzio e la quiete. Poi di nuovo il cielo, coperto da un cartello: “Benvenuti a Lumberton!” Questa sequenza, della durata esatta di due minuti, è la sequenza di apertura di Velluto Blu, film di David Lynch del 1986. Due minuti, questo il tempo che è bastato al regista per raccontare l’essenza profonda della provincia americana, che da buon provinciale del Montana, vissuto negli anni ’50, ha assorbito profondamente. Un mondo lindo e pinto, con steccati bianchi e villini a due piani tutti simili tra loro, tutti col proprio giardino e garage, immagine tipica per descrivere la realizzazione del Sogno Americano . Eppure quest’equilibrio apparente si rompe di continuo: il rubinetto perde, il tubo si impiglia nelle belle rose, un uomo cade nel fango, corteggiato dalla morte e sotto quell’erba, amorevolmente innaffiata e curata, lottano aspramente orde di insetti. La metafora è chiara: sotto il candido c’è, ben nascosto, il marcio. La provincia americana è un mondo ordinario, dove persone ordinarie (all’apparenza) tirano fuori il peggio di loro, fino a sprofondare in inferni e paradisi paralleli. Mondi che Lynch (col co-autore Mark Frost) ed altri eccellenti Autori, si divertono a creare, in un crescendo di orrore e paura, con film che sono urla, prima soffocate, poi comprese intimamente,infine tirati fuori. Ed il tema è al centro dell’interesse di molti cineasti indipendenti nell’America di oggi. All’ultimo Sundance, a gennaio scorso, ad esempio, è protagonista di Red State, l’atteso ultimo film di Kevin Smith, horror ambientato in un non meglio precisato stato della profonda provincia americana, un red state appunto, nella nomenclatura che denota anche l’America reazionaria e violenta, quella che occhieggia, neanche troppo coperta, dai film della Granik ed Ed Gass-Donnelly, quella che neanche il sogno di Obama sembra scalfire.
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