Pirati o ambientalisti?


(di Carlo Di Stanislao) – Stamani, alle prime luci, in pieno Oceano Indiano, la petroliera italiana “Savina Caylyn”, è stata sequestrata da pirati somali a 880 miglia dalla Somalia e a 500 dall’India. Secondo quanto riferisce Reuters, la nave è stata presa d’assalto da un barchino con cinque pirati a bordo, che hanno esploso 4 granate e colpi di arma da fuoco, senza però causare nessun ferimento. A bordo della petroliera sequestrata ed ora diretta verso le coste somale, ci sono cinque italiani e 17 indiani. Al momento della’attacco poi, la nostra fregata militare Zefiro, era troppo distante (ben 600 miglia) per intervenire. La petroliera, della società armatrice Fratelli D’Amato di Napoli, che, opera con la una flotta di 40 navi “Panamax” bulkcarriers, stava trasportando un carico di greggio per l’azienda di commodities Arcadia ed era partita dal terminal petrolifero Bashayer in Sudan diretta al porto Pasir Gudang in Malesia. La Farnesina, attraverso l’Unità di Crisi, ha iniziato immediatamente la sua opera di monitoraggio, mentre il ministro Franco Frattini, ha già chiesto l’attivazione di tutti i canali disponibili per assicurare la tutela dei cinque cittadini italiani a bordo (tra i quali il comandante) e dell’intero equipaggio. Negli ultimi anni le rotte che passano per il Corno d’Africa sono diventate le più pericolose al mondo e il problema dei pirati somali ha assunto proporzioni notevoli, essendo diventata una delle principali fonti di guadagno. Si tratta di miliardi di dollari e di un business basato sul riscatto del materiale trasportato, della nave stessa e del personale di bordo. Solo due giorni fa era giunta notizia, salutata con estremo favore, che Unita’ della Marina militare e della Guardia costiera indiane, avevano catturato una nave “ammiraglia” dei pirati, davanti alle coste sud-occidentali del Paese. L’imbarcazione, un grande peschereccio thailandese sequestrato sei mesi fa al largo della Somalia, era diventata la nave con cui i pirati lanciavano i loro attacchi. Già nel numero di apertura settimanale, l’Economist si era occupato del grave problema dei pirati somali, rivelando che solo l’anno scorso le loro attività criminali lungo la costa hanno portato al rapimento di 1.181 persone. Metà di queste sono state rilasciate in seguito al pagamento di un riscatto, alcune sono morte a causa degli abusi subiti o delle pessime condizioni di prigionia e si stima che almeno 760 persone siano ancora loro ostaggi. Secondo il rapporto della Camera di Commercio Internazionale e dell’International Maritime Bureau diffuso a Londra, nel 2010 sono state 53 le navi sequestrate e 1.181 i marinai catturati. I tentativi di sequestro, invece, sono stati 445, con una crescita del 10 per cento rispetto al 2009. I pirati somali sono responsabili del 92 per cento di tali sequestri. Al 31 dicembre 2010 erano 28 le navi e 638 gli ostaggi detenuti a scopo di riscatto dai pirati somali che hanno allargato notevolmente il proprio raggio d’azione raggiungendo a sud il Canale di Mozambico e ad est il 72° parallelo dell’Oceano Indiano. Gli attacchi organizzati dai pirati contro le navi nell’area al largo delle coste della Somalia sono passati dai 35 del 2005 ai 219 dello scorso anno. E anche le cifre sborsate da privati e società per i riscatti sono aumentate considerevolmente: la media era 150mila dollari per imbarcazione nel 2005, ora siamo arrivati a una media di 5,4 milioni di dollari. Si stima che l’ammontare complessivo dei riscatti lo scorso anno abbia raggiunto il record di 238 milioni di dollari. Dicono gli esperti che il problema va risolto con interventi sulla terra ferma e non in mare. Quando lungo lo stretto di Malacca gli episodi di pirateria iniziarono a intensificarsi una decina di anni fa, Malesia, Indonesia e Singapore decisero di collaborare per pattugliare lo stretto, perseguire i fuorilegge e arrestare i pirati. Sulla terraferma, il governo indonesiano raggiunse poi un accordo di pace con i ribelli di Aceh, un territorio speciale indipendente dal quale provenivano buona parte dei pirati, consentendo all’area di migliorare le proprie condizioni economiche e di vita. Cosa che negli anni ha portato a una sensibile riduzione del numero di pirati. Le autorità somale dovrebbero quindi investire, magari con l’aiuto della comunità internazionale, nella formazione di nuovi guardacoste, nella costruzione di nuove infrastrutture lungo la costa e di nuovi tribunali. Le autorità dovrebbero poi perseguire i tanti signori locali che finanziano le attività dei pirati. Tuttavia, se lasciato da sola, la Somalia non potrà però vincere questa battaglia a causa delle tante carenze amministrative, delle scarse risorse economiche e del caos in molte delle proprie regioni. La pirateria in Somalia inizia nel 1992 dopo una serie di vicissitudini politiche e, secondo i somali, svolge anche un ruolo positivo di controllo e contrasto alla pesca illegale, che depreda le acque somale senza che il Governo sia mai intervenuto in alcuna maniera. In questo contesto illegale e violento fanno capolino due aziende una svizzera e l’altra italiana: la Achair Partners e la Progresso. Dopo lo tsunami del 2004 furono ritrovati sulle coste somale rifiuti pericolosi rilasciati da alcuni container. E dal 2004 la gente della Somalia che vive vicino a quelle coste si ammala di cancro, spiegò al Times nel 2009 Michael Vaquez, esperto della questione. Nick Nuttall, portavoce per il Programma ambientale delle Nazioni Unite, afferma che i contenitori contenevano diversi tipi di rifiuti, compresi i”Uranio, rifiuti radioattivi, piombo, cadmio, mercurio e rifiuti chimici.” L’inviato delle Nazioni Unite per la Somalia, Ahmedou Ould-Abdallah, ha detto poi, che la pratica continua ancora oggi. E ’stato dopo questa scoperta che i pescatori locali si sono mobilitati, insieme con le milizie di strada, per andare nelle acque occidentali e scoraggiare a chiunque passaggio per evitare di distruggere completamente la vita acquatica in Somalia. Come si ricorderà, la precedente nave italiana sequestrati da pirati fu, nel 2009, il Biccaneer, i cui marinai furono liberati dopo 4 mesi di prigionia e, secondo la Farnesina, senza aver pagato alcun riscatto (fatto però smentito da altre fonti).


08 Febbraio 2011

Categoria : Cronaca
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