Assassino in una guerra che non serve


(di Carlo Di Stanislao) – In Italia è tutto più difficile, anche arrivare a capire come sia ucciso un proprio soldato in una teatro di guerra. Era accaduto il 31 dicembre e riaccade ora, nel caso del 36° caduto, l’alpino Luca Senna, freddato ieri mentre prestava servizio insieme ai soldati italiani nell’avamposto di Bala Murghab. Dapprima si era parlato di fuoco amico ed oggi il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, nella sua informativa alla Camera, ha detto che il primo caporal maggiore, è stato ucciso da una persona vestita da soldato afghano; non un infiltrato nell’esercito, ma un terrorista che, accettato dall’esercito Afgano, era “in servizio da tre mesi e da 45 giorni si trovava nell’avamposto”. Durante l’intervento alla Camera il ministro La Russa ha ricostruito la dinamica dell’attacco di martedì. Alle 15.30 circa locali (le 12.00 circa in Italia), 3 alpini, tra i quali i due poi colpiti e il Caporal Maggiore Matteo Rosa rimasto illeso, si trovavano all’aperto protetti sul lato Ovest dell’avamposto in prossimità del locale dormitorio. Trovandosi al riparo rispetto alla prevedibile provenienza della minaccia e non essendo in servizio di guardia, stavano effettuando manutenzione alle armi in dotazione utilizzando il compressore di uno dei due mezzi VTLM Lince presenti nel sito. Poco distanti il Maresciallo Davide Severini, comandante della postazione, ed il Caporal Maggiore Davide Frangella stavano procedendo ad interventi di manutenzione sulle apparecchiature di bordo del VTLM. Il restante personale italiano era, invece, di servizio nelle postazioni che sono rivolte in direzione EST verso l’esterno dell’avamposto. In questa fase, dall’adiacente postazione dell’Afghan National Army (ANA) distante circa 50 metri, si è avvicinato un soldato afghano, in uniforme dell’ANA ed armato con il fucile in dotazione tipo M-16 di produzione statunitense, facendo capire a gesti che chiedeva di poter impiegare il soffio d’aria compressa fornito dal compressore di bordo del VTLM per pulire la propria arma. Il Caporale Barisonzi e il Caporal Maggiore Sanna si accorgevano che il soldato dell’ANA aveva il caricatore inserito nella propria arma. Ritenendo, presumibilmente, che si trattasse di una distrazione, a gesti e con la voce cercavano di fargli capire che doveva disinserirlo – per ovvi motivi di sicurezza – ma il soldato afghano, avvicinatosi ulteriormente, apriva il fuoco improvvisamente colpendo i due alpini. L’attentatore – identificato in seguito come Gullab AlI Noor, nato nel Kunduz, distretto di Archi, villaggio di Sufi Zaman, in servizio da 3 mesi e da 45 giorni destinato all’avamposto Highlander – approfittando della confusione generata dall’attacco inaspettato e della perfetta conoscenza del dispositivo, raggiungeva di corsa il perimetro del base uscendo dall’ aerea e si lanciava lungo la scarpata e quindi sulla Ring Road prima in direzione Est e piegando poi verso Nord Est in mezzo alle montagne. Tutto chiaro quindi, ma solo ora e con un’ampia confusione iniziale. Nella sua informativa, come scrive il Corriere della Sera, La Russa ha inoltre confermato la volontà del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, a non lasciare Afghanistan, nonostante lo stesso premier, ieri, si fosse interrogato pubblicamente sulla opportunità del mantenimento della presenza italiana in quel territorio di guerra. “Non c’è dubbio che il nostro impegno è completare la nostra missione. Questo è il convincimento di Berlusconi e pure il mio”, ha spiegato La Russa, anche se in molti si interrogano sul senso di una guerra che ormai è davvero fuori da ogni obbiettivo e controllo. David Thorne, ambasciatore americano per l’Italia in vista al contingente italiano in Afghanistan ha espresso “a nome del popolo e del governo americano il nostro profondo cordoglio alla famiglia del militare ucciso…un altro coraggioso alpino. I nostri pensieri e preghiere vanno anche al suo collega rimasto ferito. Oggi ho potuto vedere in prima persona come il sacrificio e la dedizione dei militari e dei civili italiani stiano portando un contributo di grande importanza per migliorare la vita degli afghani”. Ma non credo questo basti a rassicurare coloro che vedono nel conflitto in corso dal 2004, un’unitile spreco di vite umane, oltre che di risorse. In una sua lettera, la penultima vittima italiana in Afganistan, Matteo Miotto, scritta un paio di mesi prima della morte “in combattimento” (e non mentre era di guarda, come dapprima si disse), dichiarava ai suoi: “Questi popoli hanno saputo conservare le proprie radici, dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case, invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora capisci che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi”. Mostrando così di comprendere fino in fondo che, come commentava su Il Fatto Quotidiano Massimo Fini, il nocciolo della guerra afghana è tutto costruito sui loschi interessi di chi la sta conducendo sulla distruzione, per lucrare attraverso il business della ricostruzione, gli aiuti fasulli ed anche, forse, il turismo estremo delle Ong. Su www.politicamentecorretto.com, organo prossimo al Pdl, scrive il direttore Salvatore Viglia, che i nostri alpini sono la prima linea difensiva della nostra civiltà contro i più violenti e determinati tra i musulmani. Non tanto per convertirli alla democrazia od al bene universale, ma semplicemente per evitare che le bombe ai lati delle strade siano messe non solo in Afghanistan, ma anche a Milano. Noi, davvero, non ne siamo affatto convinti.


19 Gennaio 2011

Categoria : Cronaca
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