Quei padri e mariti dolorosi


La lettera di Vittorini e Cinque al sindaco, che abbiamo pubblicato ieri senza commenti, è una composizione di dolore, sdegno e dignità che non ha uguali, e quindi non poteva essere commentata: aggiungere qualsiasi cosa sarebbe stato superfluo e anche presuntuoso. Perchè alcuni di noi non sanno cosa sia “quel”
dolore, e altri pensano solo di porterlo immaginare. Invece non è così. Il dolore non è clonabile. Ognuno ha il suo, che gli rode il cuore e l’anima, che alberga inestirpabile nell’intimo e non avrà fine. Solo assuefazione nel tempo, cosa diversa.
Dopo quel che è accaduto in questa terra martoriata, padri e mariti dolorosi sopravvivono a stento, e vorrebbero solo un minimo di attenzione dalla collettività che si accinge a ricostruire. Ma pietre e mattoni potranno essere rimessi in piedi. Le cause del dolore straziante non saranno mai azzerate. La città, nel senso di collettività, deve un tributo di vicinanza, di comprensione, di umanità a queste persone e a tutte le altre che non scrivono lettere. Scelgono il silenzio, nella flebile speranza in una giustizia che, finora, è solo nei volti onesti di due magistrati e dei loro collaboratori. Una giustizia che potrebbe naufragare nel mare magnum dei cavilli, delle istanze, delle carte bollate, dei bastoni tra le ruote. L’unica giustizia sarebbe stata un soffio di calore, una pietas pubblica fatta, sì, di parole e forse di retorica, ma comunque doverosa. I due padri e mariti dolorosi non hanno percepito nulla di simile e oggi lanciano la loro scottante rampogna, che merita rispetto e riflessione. A rimediare c’è sempre tempo, forse. Ma il dolore, di per sè insopportabile, è stato ferito e niente porterà riparazione.

Giù il cappello e testa china di fronte a tutti i morti del 6 aprile e dei giorni successivi.



11 Aprile 2010

Gianfranco Colacito  -  Direttore InAbruzzo.com - giancolacito@yahoo.it

Categoria : Editoriale
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