Auguri, speriamo
E’ rituale darsi gli auguri, ma talvolta è di più. E’ Pasqua ma è anche il primo anniversario di quando in pochi secondi diventammo niente. Nessuno aveva la sensazione esatta di cosa vuol dire diventare niente in un attimo, pur restando in carne ed ossa, e quattro stracci gettati addosso fuggendo. Perdi tutto attorno a te, perdi identità e passato, per quanto poco possa valere il passato. Di solito il tempo allevia e medica. Non nel caso nostro. Anzi, un anno è servito a precisare lo sconforto, e raddoppuiare lo sforzo di ripresa, senza molto successo. E così siamo arrivati a 365 giorni da quel 6 aprile, ricordando, parlandone, di quella notte di tregenda. Non c’è discorso, non c’è comitiva, non c’è dialogo che non finisca nello stesso modo: si parla di terremoto. La frase “L’Aquila tornerà a volare” ha fatto il pieno, ma diventa sempre più vuota, perchè tutti sappiamo che di tornare a volare (ammesso che si sia mai davvero volato) non se ne parla, nè se ne parlerà in tempi ragionevoli.
Stranamente, come ci dicono alcuni, fin da venerdì sera a L’Aquila erano finite le uova di Pasqua di cioccolato griffato, quelle che vogliono tutti per far vedere che se ne intendono: la gente ha speso in uova una fortuna. Vai a capire cosa nascondono certi gesti collettivi, quasi scaramantici, quasi unanimi. Uova per tornare all’origine? Per simboleggiare una rinascita? Per cercare una sorpresa – la ripresa – che nessuno ha sicuramente trovato dentro il cioccolato.
Auguri, dunque, perchè si usa, perchè si deve altrimenti la gente si offende.
Perchè, soprattutto, ne abbiamo un bisogno disperato. Sappiamo che fra un anno o cinque anni, sarà cambiato poco. Ma abbiamo il dovere di sperarlo, Ecco cosa vogliono dire i nostri auguri, che inviamo a tutti coloro che ci vogliono bene o che ci vogliono male. Ambedue le cose significano vita.
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