Freddo, neve e buio sulle macerie
Il vento gelido e il nevischio sulle macerie, nel buio di notti da tregenda nella città crocifissa, nella città che, scopriamo ogni giorno, veramente non c’
è più. Una desolata, grande e smarrita periferia attorno a ricordi, piccole luci accese, rovine puntellate, riti in chiese strappate alla morte. Sarà il peggiore dei Natali, sarà strazio per ogni cuore, aquilano o forestiero. Non illudiamoci. Sentiremo il rimorso apparso chiaro fin dal 7 aprile: questa città non l’abbiamo saputa amare. E non sappiamo amarla oggi che è distesa in coma in un letto disfatto. Non sanno amarla politicanti che cercano affari e lucro persino adesso, prigionieri di piccole logiche di potere personale, fedeli solo all’inerzia, alle beghe, alle liti, alla rivalità . Incapaci di guizzi di lealtà . Non sanno amarla burocrati nefasti che vivono di bolli e bizantinismi retrogradi. Uomini che tradiscono il dovere alla ricerca di tornaconti. Affaristi, portaborse, meschini avventurieri senza il coraggio delle avventure. Se la città non rinasce, la colpa è di costoro e di chi non se ne libera. L’Aquila rantolante, che forse un giorno un medico geniale saprÃ
guarire: è l’unica speranza da nutrire, anche se tanti sono certi che non faranno in tempo a vivere quel giorno. Perché è molto lontano. Alcune vite non basteranno. Fidenti nella storia, sappiamo che due o tre volte L’Aquila rinacque. E divenne ciò che ci raccontano foto ormai preziose, scattate fino al
5 aprile. L’unico tesoro da conservare gelosamente. Grazie ai pochi, pochissimi che lavorano con il cuore e il cervello. Vagano come inquieti fantasmi nel mare dell’inettitudine.
Volevamo scrivere queste due o tre piccole cose ad un anno esatto dall’inizio dei terremoti: metà dicembre 2008. La natura cominciò allora a darci segnali.
La ignorammo.
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