Ombre lunghe
(di Carlo Di Stanislao) – Il documento “segreto” è datato 3 maggio 2005 ed è stato redatto dal diplomatico statunitense il giorno dopo aver incontrato a Palazzo Chigi, tra gli altri, Gianfranco Fini (all’epoca ministro degli Esteri), il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta e il capo del Sismi Niccolò Pollari, per discutere del rapporto italiano sulla vicenda. Assente invece il premier Berlusconi. Il governo italiano, si legge nel dispaccio, non voleva che “questo incidente avesse effetti negativi sulle eccellenti relazioni bilaterali” e sull’impegno italiano in Iraq. Inoltre “il governo italiano vuole porsi l’incidente dietro le spalle e spera che il rapporto serva a questo”. Nel rapporto, spiega il documento dell’ambasciata Usa a Roma, si afferma che “gli investigatori italiani non hanno trovato prove che l’omicidio sia stato intenzionale. Questo punto (del rapporto) è stato “designed specifically” – costruito appositamente – per scoraggiare altre indagini della magistratura, visto che per la legge italiana si possono aprire inchieste sulla morte di cittadini italiani all’estero, ma non in caso di omicidio non intenzionale”. Ma l’ambasciatore Sembler non considera “certo” il successo della strategia adottata dal governo italiano per chiudere il caso Calipari. Perché, scrive tra parentesi, “i nostri contatti hanno messo in guardia che i magistrati italiani sono famigerati per piegare simili leggi ai loro scopi, quindi resta da verificare se la tattica del governo italiano avrà successo”. “Il rapporto – scrive ancora Sembler – è stato scritto avendo i magistrati in mente”. L’ambasciatore americano a questo punto si produce in alcune “raccomandazioni”. In particolare, consiglia a tutti i portavoce dell’amministrazione Usa di non soffermarsi a criticare “punto per punto” il rapporto italiano sul caso Calipari per difendere la ricostruzione americana dei fatti, perché si produrrebbero “conseguenze asimmetriche”: se è improbabile che le critiche contenute nel rapporto italiano possano danneggiare il governo Usa, se l’esecutivo italiano dovesse apparire “sleale” di fronte alla pubblica opinione, o troppo accondiscendente verso gli Usa nel caso in questione, le conseguenze per il governo Berlusconi e per l’impegno italiano in Iraq “potrebbero essere severe”. Il 5 maggio, il premier Berlusconi sarebbe intervenuto in Parlamento per discutere il rapporto. “Sarebbe meglio – suggerisce Sembler – che il presidente George W. Bush lo chiamasse il giorno prima, in modo che lui possa dire in Parlamento di aver discusso la questione con il presidente”. Inoltre, “il Dipartimento di Stato dovrebbe considerare una telefonata del Segretario di Stato (Condolezza Rice) al vicepresidente Fini nei prossimi giorni “per confermare che condividiamo il desiderio italiano di lasciarsi alle spalle l’incidente”. Su “La Stampa” Rosa Villecco, vedova di Calipari, dichiara, di là dal cablo USA diramato da Wikileaks, che da sempre aveva immaginato che il governo italiano non avrebbe premuto il piede sull’acceleratore, alla ricerca della verità sulla morte del marito. E alla domanda su cosa pensasse dell’idea di Giuliana Sgrena, la giornalista del Manifesto salvata da Calipari, di chiedere l’apertura di una commissione parlamentare d’inchiesta ha detto: “Per carità. Ho visto come sono finite le commissioni d’inchiesta parlamentari… i miei figli hanno diritto a vivere serenamente”. Naturalmente il governo nega e in una nota diramata da Palazzo Chigi, si legge: ”Ancora una volta i resoconti di Wikileaks attribuiti all’ambasciatore americano in Italia corrono il rischio di accreditare posizioni, non solo mai assunte dal governo italiano, ma esattamente contrarie alla verita”. La nota, di ieri, prosegue: ”Evidentemente, in quei resoconti si sono scambiati i desideri con la realtà, le domande con le risposte. E le valutazioni personali di diplomatici americani a Roma si sono trasformate in presunte ‘posizioni ufficiali’ che il governo italiano non ha invece mai assunto. Inutili quindi, o strumentali, le polemiche su qualcosa che non esiste”. Sulla vicenda le parole del Presidente Napolitano che ha rivolto un vero e proprio appello agli ambasciatori accreditati in Italia: ”Non lasciate che una occasionale quanto infelice violazione della confidenzialita’ vi distolga dalla missione che svolgete nell’interesse dei Paesi amici che rappresentate e nell’interesse piu’ ampio e, lasciatemelo dire, più nobile della pace e della stabilità del mondo”. Trovo strane ed inquietanti analogie fra questo caso e quello di Manuel De Santis, 20 anni, precario e impiegato come pizzaiolo, che si è messo a disposizione degli inquirenti, dopo aver causato un grave trauma cranico ad un 15 e, come si vede su un altro video, ha sferrato un altro colpo di casco ad un altro giovanissimo durante le manifestazioni di martedì scorso a Roma. Il ventenne ha presentato sabato scorso in procura, attraverso il suo difensore, l’avvocato Tommaso Mancini, una dichiarazione nella quale si assumeva la responsabilità del colpo in testa a Cristiano, il 15enne che sarà operato nel reparto maxillo-facciale dell’ospedale San Giovanni per le ferite riportate e si è detto pentito, motivando il suo gesto come un aiuto alle forze dell’ordine. Come nel caso di Gallipoli a ben vedere ci si accorge che certi errori ed insensate violenze sono il frutto di un magma letale di cretinate, acuite da un clima in cui si perde ogni equilibrio ed è segnale di un universo in cui ledere o uccidere e quanto mai facile, in ogni circostanza. Pensando al ventenne reo confesso e pur provenendo da una cultura democratica e garantista, mi viene in mente Pin, il protagonista de Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, che vuole cocciutamente partecipare a quello che sembra l’unico gioco possibile, la guerra, in modo che alche lui si senta parte della banda. Alla fine Manuel, come Pin, è un altro tradito dalla vita che trova nella guerra, cioè nella violenza, un senso, un’alternativa, uno scopo per vivere, in una società che gli nega lavoro e futuro e con menzogne che gli impediscono anche solo di vederle le cose. Alla fine dobbiamo tremare per la generazione disperata di figli che abbiamo costruito, fra violenza e menzogne, una generazione priva di prospettive e di ideali, che crede di vedere il mondo con l’asciutta chiarezza di una macchina fotografica, ma non per una raggiunta consapevolezza, ma perché non possiede gli strumenti etici con cui si distinguono il bene dal male, scegliendo poi, troppo spesso, la seconda alternativa. Ma non voglio chiudermi nella disquisizione su “buoni e cattivi”. Credo che tra i manifestanti ci sia una frangia violenta e la condanno. Non condanno, invece, il movimentismo studentesco, non condanno tutti coloro che hanno semplicemente scelto di manifestare pacificamente le proprie opinioni. E non condanno nemmeno le forze dell’ordine come categoria, perché confido nel fatto che chi ha scelto una determinata strada sia una persona che crede nella giustizia e nella legalità. Condanno gli abusi di potere, quando e se ci sono stati, che è una cosa molto diversa. Condanno il meccanismo della folla manzoniana, in cui tutti agiscono e nessuno pensa. Condanno i tentativi di manipolare l’informazione, un gesto ripugnante di cui siamo quotidianamente vittime e li condanno sia quando vengono dalla stampa ufficiale, sia quando provengono da chi si professa paladino di una informazione “alternativa”. Alexis De Tocqueville, nel 1840, scriveva: “se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri”. Oggi definiamo lo stesso concetto parlando di omologazione, egoismo e indifferenza. E questa fantomatica indifferenza, abusata e lamentata da tutti come una causa, è più correttamente individuabile, credo, nella conseguenza dell’accettazione passiva di quella che potremmo definire “soluzione di comodo”, che da un lato giustifica le bugie, dall’altro da luogo ad insensate violenze. Una ricerca di Renato Mannheimer dell’aprile scorso, ci informa sul fatto che sono rabbia e il disgusto i due sentimenti più diffusi fra i giovani. Amedeo Vigorelli, professore di Filosofia Morale all’Università degli studi di Milano ha pubblicato un bel libro Il disgusto del tempo. La noia come tonalità affettiva, edito da Mimesis, in cui rabbia e disgusto generano noia e questa è definita come una “tonalità affettiva fondamentale”, che può essere posta al centro di un ripensamento etico dei problemi dell’antropologia filosofica. Semplificando e ripredendo Sartre (e in certa misura anche Jankélévitch) con la sa visione coscienzialistica del tempo ed Heidegger la concezione ontologica e storica, si può dire che una vera coscienza non è mai propriamente annoiata, ma avverte (nella riflessione) un sentimento non fattizio (quasi metafisico) di noia profonda, che viene caratterizzato come nausea. È una sorta di orrore o di estasi orribile per il nulla dell’esistenza (l’uomo come passione inutile), cui l’educazione e la cultura debbono farci reagire. Tra il rischio di rinfolcolare un filone nichilista-romantico che ha ormai invaso da decenni la sotto-cultura filosofica (una cultura definita dal professor Vigorelli “stucchevole”) e la tentazione di espungere nebulosi temi “esistenzialisti” dal fare filosofia, ci pare giunto il momento di dire, guardandoci attorno, che è in primo luogo la famiglia che dovrebbe nuovi spunti di riflessione su temi volatili come le “tonalità” affettive, per generare individui nuovi e non inclini al fraintendimento e alla violenza.
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