Cinema di qualità – Quando il borghese piccolo piccolo, è vittima del carnefice
(di Carlo Di Stanislao) – L’Aquila – Un fuori programma per omaggiare Monicelli, uno dei più importanti registi cinematografici della “commedia all’italiana”, un artista che ha sempre avuto una particolare attenzione per l’evoluzione del costume e dei problemi sociali del paese, a pochi giorni dalla tragica, volitiva scomparsa. Con la proiezione di “Un borghese piccolo piccolo”, si chiuderà, il prossimo 14 dicembre, la serie Cinema D’Essai, realizzata al Movieplex dalla’Istituto Cinematografico La Lanterna Magica, con 14 pellicole di pregio della Cineteca Aquilana. Come scrive acutamente Gianfranco Massetti, sostanzialmente privo di un giudizio o di una condanna ideologici, Un borghese piccolo piccolo rappresenta piuttosto una critica di costume rivolta ad un intero paese dove la dimensione del sociale sembra assente, essendo ad essa sostituita la pratica della raccomandazione, che accompagna gli individui dalla sala parto al loculo del cimitero. Così, la “fratellanza massonica” si esaurisce nel ristretto ambito di un gruppo di impiegati dello stesso ufficio ministeriale, a garanzia di un sistema chiuso di caste e di rapporti feudali, oramai privi di un medioevo e di un’autentica aristocrazia, peraltro mai veramente esistita. Un sistema che lascia agli esclusi ben poche alternative, comprese quelle che si possono sempre giustificare ricorrendo a qualche teoria del Lombroso. Sull’opposto versante, Vivaldi (il protagonista) non sembra affatto un caso patologico, ma tutt’al più il prodotto di una patologia che fa parte del dna della nazione. Testimonianza del modo di essere e di pensare dell’italiano medio degli anni settanta, Un borghese piccolo piccolo ci aiuta anche a comprendere l’attualità, scavando nelle piccole e quotidiane miserie del costume nazionale. Ricavato dal romanzo omonimo di Vincenzo Cerami, il film è la storia di un modesto impiegato del ministero del lavoro, interpretato in modo magistrale da un insolito Alberto Sordi, che per la circostanza viene consegnato al ruolo di un personaggio drammatico, ma non per questo meno suo. Per agevolare il figlio al concorso ministeriale, Vivaldi accetta di iscriversi alla loggia massonica a cui appartiene il dottor Spaziani, il suo superiore. Il guaio è che, proprio il giorno dell’esame, davanti agli occhi del padre, Mario viene ucciso da un rapinatore di banca. Vincitore di tre David di Donatello nel 1977 (film, regia e attore protagonista), il film (forse anche più del libro di Cerami), segna una sorta di resa, di sconfitta, in cui Monicelli comprende che ridere dei vizi degli italiani, ridicolizzarli e sbeffeggiarli, equivaleva ad una manifestazione di fiducia, ad un atto d’amore e ad una speranza sincera nelle loro capacità umane. A metà la pellicola cambia rotta. La divertente commedia si trasforma improvvisamente in un film drammatico e spietato. La moglie di Giovanni (una superba Shirley Winters), per lo shock della morte del figlio, rimane paralizzata e il mondo cade letteralmente addosso al protagonista. E qui egli tira fuori nel contempo il suo lato più buono e dolce con la moglie (bellissima è la straniante sequenza della camera mortuaria, con dopo lui che la rassicura sulla sistemazione della bara del figlio) e quello più violento e vendicativo, quando trova l’assassino e decide, come probabilmente avrebbe voluto fare la maggioranza degli italiani disillusi dal sistema giudiziario, di farsi giustizia da sé. E non a caso, il luogo della vendetta sarà lo stesso di inizio film in cui aveva ucciso violentemente il pesce. Il finale, poi, è amarissimo: morta anche la moglie, Giovanni rimane solo e ormai in lui sopravvive unicamente, cresciuta a dismisura, la parte violenta e vendicativa: basta così un insulto perché, con in sottofondo la stessa musica che lo aveva visto all’inseguimento del killer di suo figlio, egli si metta all’inseguimento della sua nuova vittima, che presumibilmente farà la stessa fine. Per certi aspetti si potrebbe definire Un borghese piccolo piccolo come l’atto conclusivo della commedia che a partire dalla metà degli anni settanta aveva già intrapreso la sua parabola discendente. Storia di vittime che sono anche mostri, un film omogeneo, sapiente nella mescolanza di toni (commedia, grottesco) e nella progressione drammatica, un modo intelligente di ricordare un grande Autore e chiudere un ciclo dedicato al grande cinema autorale. In effetti, la regia di Monicelli nobilita una sceneggiatura già di per sé eccellente, con una messa in scena curata al minimo dettaglio, inquadrature superbe (per esempio quella della morte della moglie) e grandi tocchi di classe (la trovata della mosca nella scena della morte dell’assassino o la bellissima panoramica a 360 gradi che termina sul balcone di casa Vivaldi il giorno dell’esame). Joseph Conrad disse: “L’idea di una fonte sovrannaturale del male non è necessaria, gli uomini da soli sono capaci di ogni nequizia” e questo Monicelli ci dimostra, con amara, insuperabile perizia. Il mostro che si accende dentro Giovanni Vivaldi, dopo l’uccisione del figlio e l’ictus della moglie, è il Lieviatano di Hobbes, ovvero l’incapacità di procedere secondo civili regole di convivenza, ma mossi da istinti animali di sopravvivenza e vendetta, intrisi ed immersi in passioni e pulsioni capaci solo di intendere la legge come riappropriazioni violenta di una spazio per sé e per i propri cari. Ma l’operazione di Monicelli(Cerami) è del tutto diversa e particolare, cioè originale, in una Italia in cui, per dirla con Bobbio, la filosofia si è identificata nel ‘900 con la politica, dove, sono stati compiuti soltanto innesti (Croce innesta Hegel su Vico, Gramsci innesta Marx su Machiavelli, Bobbio il positivismo su Cattaneo, Vattimo divulga Heidegger, etc) e le immissioni di pensatori italiani nel circolo del pensiero europeo (Gentile sotto questo aspetto è stato il grande recuperatore con la teoria spaventiana della circolazione delle idee e del loro ritorno nel luogo d’origine), sono state la preoccupazione principale. E, circa la modernità del film, i suoi temi si rifanno, in chiave allusiva e narrativa, alla riflessione sul non nascita, da noi, di un autentico liberalismo, inteso impropriamente, come una forma secolarizzata di cristianesimo e non come la capacità di superare i problemi etici di quella seconda ondata della modernità che l’ha secolarizzata, creando l’individualismo animato dall’idea del taglione. Per questo il film apre prospettive nuove e si spera che la nostra cultura sia capace di discuterne proficuamente, anche in funzione alla scelta di morte compiuta dal suo Autore.
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