I fiori del terremoto
L’Aquila – (di Gianfranco Giustizieri, studioso di letteratura e specialista in ricerche su Laudomia Bonanni) (Nelle foto, alcuni dei gigli di ferro battuto sulle facciate di alcune antiche case aquilane, Gianfranco Giustizieri e Ludomia Bonanni) - Giorgio Baglivi (Ragusa di Dalmazia, attuale Dubrovinick, 1668 – Roma 1707) medico illustre dei papi Innocenzo XII e Clemente XI, nell’inserire nella sua Opera omnia medico-practica et anatomica una lettera del marchese Marco Garofalo inviato a L’Aquila dal viceré di Napoli per verificare nell’immediato i danni provocati dal tragico terremoto del 1703, così riportava:«La nobile, ricca ed antica città dell’Aquila, capitale della provincia del Sannio, che per i magnifici templi ed i sublimi palazzi, per il numero e la ricchezza dei nobili, tra le altre città del Regno di Napoli era la più illustre, ormai è completamente distrutta e rasa al suolo, né in essa resta altro che la facciata del tempio di S. Bernardino mentre le mura e gli altri edifici sono caduti. Perirono molti uomini, il numero dei quali raggiunge i 2.500; duecento e più i feriti. Rimasero sotto le macerie gran parte dei beni mobili, delle ricchezze, dei viveri e degli animali (…)».
E’ una pagina lontana, testimonianza diretta della fine e dell’inizio di uno dei tanti mutamenti urbanistici e sociali che la città dell’Aquila ha conosciuto nel corso della sua storia. Altri osservatori e studiosi (Bontempo, Antinori…) ci hanno tramandato una copiosa documentazione di quel terribile anno e della lunga, faticosa opera di ricostruzione. Ma non tutto è rimasto scritto o rintracciabile attraverso il ricordo secondo testimonianze generazionali, molto è ancora visibile per occhi attenti che sanno vedere. Forse il fiore del terremoto può essere un esempio non lasciato solo alla memoria letteraria.
Laudomia Bonanni, in un elzeviro pubblicato il 12 – 13 ottobre 1974 su «Il Giornale d’Italia» (altri ne seguirono a modifica del primo), nel ricordare i diversi terremoti che facevano del territorio aquilano una terra ballerina, scriveva:«E ho poi capito come, in realtà , il terremoto catastrofico del ‘700 non sia mai stato dimenticato. Esattamente il 2 febbraio 1703, il giorno della Purificazione, la città venne in gran parte falciata. Fu fatto un voto: che non si sarebbe più entrati nel carnevale, con feste e balli, prima della Candelora. Voto mantenuto nei secoli. Rotto solo ultimamente, ma dalla gioventù, che del resto suona canta balla tutto l’anno. Nondimeno è rimasto il giglio del terremoto. Lo ignoravo. Mi capitò per caso di scoprire, sulla facciata di una casetta medioevale con bifore, questo piccolo giglio nero in ferro battuto. Uno solo, verso lo spigolo a destra. Piccolo, stilizzato, come il giglio fiorentino. E poi altri, sempre su edifici vetusti, ma diversi, alcuni più ricchi e anche più numerosi. Messi molto in alto, di qua e di là degli spigoli, a coppie. Giglietti coi petali spiegati, tre, sottili, ricurvi in fuori; quelli grandi a quattro petali esterni e quattro interni, nel mezzo il pistillo con capocchia. Secondo la grandezza e l’importanza della casa o palazzo. Vi stanno da due secoli e mezzo, a testimonianza di gratitudine per essere stati salvati dal disastro. Si tratta insomma dei muri rimasti indenni nel 1703, giorno del terremoto distruttore e giorno della Purificazione. Fiore di devozione. Per grazia ricevuta. (…)».
Questo è il documento letterario lasciato dalla grande scrittrice aquilana, ma è doveroso cercare altre prove od avanzare ipotesi che si avvicinino ad una realtà di testimonianze orali giunte fino a noi. Percorriamo la seconda strada in mancanza di documenti certi, ma sempre vigili verso la storia.
Nella città rimasta dal sisma del 6 aprile 2009 è sufficiente fare un giro più o meno clandestino nelle zone aperte e chiuse (Corso Vittorio Emanuele, Via San Martino, Via Picenze…) con il naso all’insù per vederli ancora lì in alto, arrugginiti e corrosi dal tempo ma testimoni di una tradizione orale che sembra unire il tempo passato e il tempo presente: i gigli del terremoto, fiori di devozione.
Non solo in ferro battuto ma anche su piccoli scudi in ferro, incisi o a rilievo, sempre in alto, ai cantoni degli edifici.
Il 2 febbraio la chiesa cattolica celebra la presentazione al tempio di Gesù, ma la festa è anche conosciuta come giorno della Purificazione. Infatti, secondo la legge ebraica, le donne d’Israele dopo il parto dovevano rimanere 40 giorni senza accostarsi al Tabernacolo. Finito il termine c’era la cerimonia della Purificazione che consisteva nell’offerta di un sacrificio, un agnello da consumare in olocausto oppure una tortora o colomba (Levitico 12. 2-8).
2 febbraio 1703, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, ma anche giorno della scossa più terribile e distruttiva. Pochissimi edifici rimasero in piedi, alcuni sono ancora lì con quei gigli messi forse come capochiave di catene per salvare le mura di case pericolanti.
Il giglio caro a Maria, simbolo di castità e di devozione.
Ormai diversi studi hanno dimostrato che la chiesa, nel corso dei secoli e dopo ogni terremoto distruttivo, favorì ogni forma di pentimento e di simbologia del ringraziamento per l’espiazione di eventuali colpe e per il ringraziamento di vite salvate. Una precisa strategia di riconciliazione post terremoto con preghiere collettive, processioni, purificazioni mediante confessioni e penitenze e quanto altro ( Si veda la relazione Castelli-Camassi L’influsso dei grandi terremoti del 1703 sulla cultura popolare, Atti del Convegno di Studi «Settecento abruzzese. Eventi sismici, mutamenti economico-sociali e ricerca storiografica», L’Aquila, 29-31 ottobre 2004). Il giglio, forse, ha questa origine.
Del resto il fiore aquilano non può essere l’erede di altri gigli preesistenti al terremoto e posti su edifici per lo più privati a testimonianza di casate nobiliari dominanti o derivanti da altre ragioni.
Infatti le sue diversità tipologiche, come giustamente descritte dalla Bonanni e verificabili, si discostano notevolmente dalla forma e dalle caratteristiche di gigli più famosi che potevano essere già presenti nel territorio aquilano.
Il giglio reale o angioino (la dominazione dei reali francesi risale alle origini della città ) si contraddistingue sempre, anche nelle diverse mutazioni temporali, per tre petali con l’intermedio arrotondato o a punta di lancia e gli altri due incurvati e uniti con quello centrale da una piccola stanghetta.
Il giglio bottonato (sbocciato) o fiorentino, simbolo di Firenze, (i fiorentini presenti in città soprattutto nei secoli XIV-XVI) è caratterizzato sempre da cinque petali superiori di cui tre principali e due stami più sottili, oltre ad una ramificazione inferiore disposta secondo una simmetria ben precisa.
Questi i due principali gigli che potevamo trovare a testimonianza del nostro passato, ma il fiore del terremoto è tutt’altra cosa per la forma e la varietà che presenta fuori da ogni standardizzazione nobiliare o comunale.
Gigli piccoli e grandi, chiusi e aperti, dai petali e stami diversi, direi quasi sempre unici come atto famigliare individuale, posti su edifici privati costruiti nel settecento o antecedenti, qualcuno su edifici posteriori ma derivante da collocazioni precedenti.
Raccogliamoli idealmente come memoria del tempo passato e simbolo di unione di drammi diversi ma segno di rinascita e germogliati dalla stessa forza della natura. Già l’appello è stato diffuso (Parisse, Tocci, Tani) ed una prima famiglia (Gentile-Giardini) si appresta a raccoglierlo: il giglio del terremoto fiorirà sulla facciata della loro casa ristrutturata.
Non c'è ancora nessun commento.