Fallaci: “Lettera a un bambino mai nato”
“Dare la vita o negarla?”.
Questo è il dilemma che si pone la donna nel libro “Lettera ad un bambino mai nato” di Oriana Fallaci.
Un interrogativo che non ha risposta.
Far fare la scelta al diretto interessato, pensa. Ma è giusto?
È giusto scaricare il peso di tale decisione ad un segno dato da un feto che combatte per nascere, per venire al mondo?
La donna ed il bambino.
Il loro rapporto di amore ed odio, felicità e sofferenza, strettamente legati da un sottile filo che minaccia di rompersi da un momento all’altro, è il vero protagonista del libro.
Scritto senz’altro in maniera eccellente, tuttavia, in alcuni punti finisce col diventare macchinoso a causa di una serie di ragionamenti e dubbi che divorano la protagonista.
Tutti che, all’inizio, vorrebbero che non proseguisse la gravidanza: dal padre del bimbo, all’amica, al medico, al datore di lavoro.
Eppure, la sua determinazione a portare avanti un’opera ormai cominciata, è prevalente, tanto da convincere l’amica che quella è la sua scelta ed è la sua scelta giusta.
L’attaccamento al bambino che porta in grembo è morboso quanto il desiderio di strapparlo via dal suo ventre. Lei, che lo accusa di rubarle il corpo, la mente, il respiro ed il cuore, è la stessa che lo desidera, che vuole portarlo alla luce e mostrargli la vita ed il mondo, le gioie e le sofferenze.
Una donna in carriera che si avvia verso un florido futuro si trova ad un bivio:
“Dare la vita o negarla?”
Vorrebbe quel figlio, ma non è capace di rinunciare alla sua vita, al suo lavoro, per averlo, per crescerlo. Basta, però, volere un bambino per costringerlo alla vita?
Non è detto che gli piaccia vivere, ma se gli piacesse? Se gli si negasse la vita a priori, senza sapere quale sia il suo futuro, non è forse più ingiusto che fargliela vivere?
L’amica femminista, l’uomo, padre del bambino, con cui è stata ma che non ha mai amato, il medico “ossessionato dal culto della vita”, il datore di lavoro, la dottoressa che la considera quasi un’amica, i suoi genitori, sono coloro che la giudicano nel tribunale della sua coscienza. Un sogno tremendo: “una sala candida, con sette scanni e una gabbia”. Ed è proprio lei nella gabbia. Tutti gli altri, negli scanni, esprimono una sentenza: “colpevole, non colpevole”. Ma la cosa che forse stupisce di più di questo libro è la genialità della Fallaci che chiama in causa il bambino stesso.
E, dopo un toccante dialogo, ecco il colpo di scena: il bambino sceglie, sì, il suo destino, ma anche quello della madre. Di qui, poi, nascono le riflessioni sul significato della vita. Riflessioni puramente personali, che ogni lettore non può non fare dopo aver letto questo magnifico libro.
Irene Pezzi
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