Monicelli continua ad insegnare
(di Carlo Di Stanislao) – Con un beffardo sorriso toscano starà guardando quanto accade in Italia, dopo la sua morte, elogiato dal mondo del cinema, che non sempre l’aveva riconosciuto in vita e guardato come pietra dello scandalo da certa parte moralista della popolazione, quella stessa che aveva messo alla berlina, in salsa agrodolce oppure amarissima, in molti suoi film. Mario Monicelli fluttua sopra tutto questo e si diverte durante l’ennesima prova dell’inconsistenza umana, sempre fuori luogo e sempre pretestuosa e, in fondo, improduttiva e superficiale. E bastato infatti che Walter Veltroni dicesse che “Mario ha vissuto e non si è lasciato vivere, nè morire” e annotasse, con una semplicità densa di significati, che Monicelli “ha deciso di andarsene” e che, subito dopo, la leader radicale Rita Bernardini evocasse la “dolce morte” sulla quale “sarebbe il caso che la Camera avviasse almeno una riflessione”; perché la gazzarra prendesse fuoco, con Paola Binetti, teodem eletta nelle fila del Pd e oggi con Casini, che sottolinea: “Basta, per piacere, con spot a favore dell’eutanasia partendo da episodi di uomini disperati, perchè Monicelli era stato lasciato solo da famiglia e amici ed il suo è un gesto tremendo di solitudine non di libertà” e Enrico La Loggia, Pdl, rincarasse: “l’elegia del suicidio da parte di Rita Bernardini non può essere tollerata”. Napolitano, che, in mattinata, ha reso omaggio al regista, visitando la camera ardente allestita nella Casa del Cinema a Villa Borghese, aveva raccomandato il rispetto per quella sua ultima volontà, ma questa esortazione di civiltà, al solito, è stata disattesa, proprio nel luogo più alto della nostra democrazia. “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”: questo il commiato dalla vita di Cesare Pavese, scritto sulla prima pagina di una copia dei Dialoghi con Leucò, trovata nella stanza d’albergo dove si tolse la vita sessant’anni fa. Ma, al solito, noi italiani di pettegolezzi e pregiudizi abbiamo intriso l’animo e riempito ogni singola cellula. La frase di Pavese ricorda molto l’ ultima lettera di Majakovskij, che incomincia così: “Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi”. Majakovskij continuava aggiungendo l’ augurio: “Voi che restate, siate felici”. Ma Monicelli, ch è stata persona più pratica dei due scrittori e più di loro adusa a comprendere che l’uomo non impara, murato vivo negli errori dettati dal suo cinismo, non ha scritto nulla e con un estremo scatto di volontà, ha deciso quel gesto che chiamiamo estremo e che, in quel momento, per lui, è stato unico e semplice. Sempre Pavese ha scritto che: “La vita di ogni artista e di ogni uomo è come quella dei popoli un incessante sforzo per ridurre a chiarezza i suoi miti”. E completa chiarezza Mario Monicelli l’ha fatta saltando giù da venti metri, con un gesto personale che non ha coinvolto nessuno e non intendeva insegnare proprio nulla a nessuno. Tutto il contrario delle parole di Enrico La Loggia, che oggi, rivolgendosi ai banchi dell’opposizione, ha dichiarato: “Mai, mai, mai il suicidio, ma sempre la speranza. Questo è il compito di tutti noi rappresentanti eletti del popolo italiano. Questo è il nostro compito”, dimenticando che il primo compito di un deputato è proprio quello, invece, di salvaguardare la libertà, anche quando estrema nelle sue conseguenze. “Non c’è libertà senza l’uguaglianza”, diceva Monicelli, affermando il diritto di pari dignità fra contrari, fra, ad esempio, eutanasia e difesa ad oltranza della vita. Così ci insegnava, nei film e nelle pubbliche prese di posizione, ricordandoci che la salvaguardia della libertà è la strada maestra per assicurare dignità e civiltà autentica a questo Paese e dare così a ciascuno, e in particolare ai giovani, un grande futuro, morale e strutturale, etico e culturale. Rispetto quindi, sia per quell’Italia, mostrata ieri a “Porta a Porta”, che di fronte alle difficoltà drammatiche di situazioni cliniche gravissime e in alcuni casi apparentemente senza speranza, sceglie la vita e la volontà di accettare fino in fondo la situazione umana; sia per chi è di parere contrario. E’ questa la vera civiltà, basata sulla salvaguardia ed il rispetto delle differenze. Per i Greci dell’antichità, erano barbari tutti coloro che non erano legati con loro da un legame di sangue, quelli che non erano greci, differenti per natura, privi di cultura, pieni di ogni vizio. Quanto ai Romani, essi cercavano di contenere le orde barbariche ai confini del loro impero. Il termine “barbarie”, poi, ha caratterizzato l’assenza di civiltà e di raffinatezza negli usi e nei costumi di una popolazione: essere selvaggi, crudeli, non civilizzati. Ma oggi è peggio ed i veri barbari sono quelli che pretendono di insegnare agli altri come vivere e, anche, come morire. Ne “I compagni”, sceneggiato dallo stesso Monicelli con Age e Scarpelli e la collaborazione di Suso Cecchi d’Amico, Monicelli, già nel ’63 aveva insegnato proprio questo: il rispetto per ogni decisione, soprattutto quando non la si condivide. La storia è ambientata a Torino, tra l’Ottocento e il Novecento e narra di una protesta operaia finita nella repressione e nella morte di uno dei manifestanti, non ebbe successo nell’Italia del boom e nonostante il cast (Marcello Mastroianni, Annie Girardot, Renato Salvatori, Bernard Blier e una giovanissima Raffaella Carrà) ed anche se ebbe due nomition per il soggetto e la sceneggiatura non vinse nulla ed anche oggi risulterebbe indigesta.
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