Cinema essai, nouvelle vague
L’Aquila – (di Carlo Di Stanislao) – La Nouvelle vague, come il neorealismo, non scaturisce da un vero e proprio manifesto programmatico, ma è preparato da un retroterra criticoletterario rappresentato dagli interventi di A. Bazin, fondatore dei “Cahiers du Cinema”, da un lato, e dall’altro dai giovani redattori “d’assalto” della rivista: J.-L. Godard, F. Truffaut, E. Rohmer, C. Chabrol, A. Resnais, J. Rivette, tutti cinefili incalliti che essendosi nutriti di centinaia e centinaia di film e prendendo spunto da un vecchio articolo di A. Astruc del 1948 (La camera-stylo) elaborano le nozioni di cinema come linguaggio e di “auteur”, contrapposto a “metteur en scène”. Due nozioni che utilizzano prima per svecchiare e rivoluzionare la metodologia critica (legata alla prassi umanistico-letteraria del riassunto-parafrasi-interpretazione) e, successivamente, passati alla regia, quello del modo di fare cinema. Esordio nel lungometraggio di Cluade Chabrol, nonchè primo film della ‘nouvelle vague’, accolto trionfalmente a Locarno nel ’58 ed apripista per le opere di Truffaut, Godard e gli altri, “Le beau Serge” è una sorta di parabola con un protagonista cristianamente dedito all’altrui bene, che sa porgere l’altra guancia, perdonare, convogliare tutte le proprie forze in direzione delle necessità del prossimo. Nel film Il ‘bel Sergio’, rinsavisce da una sbornia costatagli quasi la morte, udendo i vagiti del suo neonato figlio. Ma che ne sarà di loro due e della non-amata moglie? Serge non ha mai dato alcun segno di ravvedimento e questo non pone alcuna base fiduciosa per il futuro. L’inquietudine del personaggio, che è in pratica il motivo di interesse maggiore del film, si riflette in una conclusione aperta, che non è per nulla un finale. Girato con pochi mezzi in ambienti naturali a Sardent (Creuse), paesino dove Chabrol aveva passato la sua infanzia durante la guerra, grazie ad una piccola, inaspettata eridità avuta dalla moglie, il film è un racconto asciuttamente naturalistico, con bravissimi interpreti: Bernadette Lafont, Gérard Blain, Jean-Claude Brialy e Michèle Meritz. Come gli altri film del primo periodo del nuovo cinema francese (“I 400 colpi”, “Fino alla’ultimo respiro”, “I Cugini”), è girato in esterni ed ambienti reali, con attrezzature leggere, ultimato in fretta e con doppiaggio in post-produzione. Dopo il successo di questo primo film, Chabrol, scomparso recentemente, potè girare I cugini, anch’esso accolto trionfalmente, cosa che gli permise di continuare a girare lungometraggi e mettere in pratica la sua ammirazione per Hitchcock, che lo porterà a produrre psicodrammi pieni d’atmosfera (Le donne facili, Ophelia) e thriller psicologici (Stéphane, una moglie infedele, Ucciderò un uomo, Il tagliagole). Concentrandosi, come Hitchcock, sul mondo borghese ricco di tensioni che esplodono in follia. Claude Chabrol fu il più pragmatico regista proveniente dai Cahiers du Cinema. Le beau Serge sarà il sesto appuntamento, martedì 19 al Moviplex, con spettacolo unico ed inizio alle 18, della bella rassegna “Cinema D’Essai”, curata da Piercesare Stagni e con pellicole della cineteca della’Istituto Cinematografico Lanterna Magica. La copia che sarà proiettata, è una delle poche in Italia e senza dubbio quella meglio conservata. Come già detto, Chabrol è morto a 80 anni, lo scorso 12 settembre ed anche in questo modo i cinefili aquilani intendono festeggiarne la longevità non solo biologica, ma creativa e produttiva. E’ stato un immenso cineasta francese, libero, impertinente, politico e prolisso, che aveva iniziato scrivendo con Eric Rohmer la primo biografia francese di Hitchcock ed il cui ultimo film, Bellamy, con Gerard Depardieu, era stato presentato al Festival di Berlino nel 2009. Sarà negli anni settanta, con l’incontro con la grandiosa attrice Isabelle Huppert, che inizierò a cambiare stile ed a distaccarsi dalla Nouvelle Vague, mentre la fama all’estero la incontra nel 1988 con il film “Un affare di donne”. Molti hanno criticato Chabrol, a partire da questo suo primo film. Per noi invece, pur nella discontinuità dell’opera, per cinquanta anni Chabrol ha testimoniato la vocazione verso un cinema ineso come linguaggio, vale a dire non come semplice procedimento di messa in scena-illustrazione visiva di una sceneggiatura letteraria, bensì come strumento per una “scrittura” personale di espressione e frutto di un “auteur” non più scome colui che esprime una propria poetica-visione del mondo di tipo contenutistico, bensì come colui che utilizza gli strumenti messi a disposizione dal linguaggio per un’espressione tecnico-stilistica libera dalle normali convenzioni e strettamente personale. Un “auteur” quindi non solo per ciò che è riuscito a dire, ma anche e ancor più per come lo ha detto.
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