Le paure degli italiani


(di Carlo Di Stanislao) – La non autosufficienza e l’impossibilità di pagare le spese mediche rappresentano la prima paura degli italiani, più sentita della criminalità e della disoccupazione. È quanto risulta dallo studio realizzato dal Censis per il Forum Ania-Consumatori, presentato ieri durante il convegno “Gli scenari del welfare, tra nuovi bisogni e voglia di futuro”. Dallo studio emerge in primo luogo il problema delle ingenti spese per il sostentamento dei familiari in “condizione critica”: nel 2009 il 32,1% delle famiglie si è trovata in gravi situazioni di disagio che vanno dalla necessità di assistere malati terminali o portatori di handicap all’improvvisa perdita di reddito o disoccupazione di un congiunto. Disagi affrontati dalle famiglie in totale autonomia (59%) o con il sostegno di amici o parenti (28%), ma comunque in assenza o con scarso apporto del sistema di welfare. E questa sensazione di solitudine si ripercuote sui timori dichiarati dai cittadini: in primis la non autosufficienza (85,7%) e l’impossibilita’ di sostenere le spese mediche (82,5%), e solo in seconda battuta la criminalità (77,7%) e la disoccupazione (75,1%). Per questo tra le richieste avanzate dalla maggioranza degli italiani c’è quella di un welfare più efficiente e modulato sui nuovi bisogni di protezione. “Siamo e restiamo una società che invecchia, che ha quindi una concezione dei rischi diversa da quella di una società giovane, e un crescente numero di bisogni diversificati che pongono il problema dell’offerta pubblica e privata”. Così Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, ha aperto, il 5 ottobre, il suo intervento al convegno ‘Gli scenari del welfare, tra nuovi bisogni e voglia di futuro’, organizzato dalla fondazione Ania-Consumatori, nel corso del quale e’ stato presentato uno studio realizzato dal Censis sulla rapporto tra gli italiani e il sistema di welfare nazionale. “C’e’ una evidente richiesta pubblica di welfare –ha proseguito Epifani- mentre lo Stato non ha strumenti validi per tutti: lo dimostrano gli ammortizzatori sociali di cui non tutti hanno diritto e da cui sono esclusi precari e giovani”. Ciò che emerge non tanto dalle parole di Epifani ma dal rapporto Censis, è che il cittadino deve essere più attivo e consapevole delle scelte della sua vita”, perché ‘le risorse pubbliche sono sempre più scarse e con una crescita del Paese sempre più debole, vuol dire nuovi tagli della spesa sociale e nuove incertezze per momenti di debolezza e di fragilità, quali malattia o vecchiaia. Ma ciò che l’ultimo Censis evidenzia, è anche lo stato marasmico dei nostri servizi, nonostante le promesse “del fare” di un governo in sella da quasi tre anni. Non difforme da quella degli utenti è l’opinione degli erogatori dei servizi e degli amministratori locali, anch’essi coinvolti nell’indagine. Il 70% degli amministratori considera infatti efficace la partnership pubblico-privato per i servizi in generale, mentre il 37% è assolutamente favorevole a un maggiore coinvolgimento delle imprese e degli enti anche nel sistema sanitario territoriale. Il Presidente del Censis Giuseppe De Rita, illustrando i risultati del rapporto sviluppato per il Forum ANIA-Consumatori , si è interrogato sulle attese e le opinioni dei tre soggetti protagonisti: i cittadini in quanto fruitori; gli enti e le imprese che erogano i servizi socio-sanitari; i Comuni, prima linea del versante pubblico nel rapporto con la grande utenza sociale. Per quanto concerne i primi attori, cioè i cittadini, si sentono abbandonati e questo genere disagio profondo e prontissima paura. Considerati questi presupposti, non stupisce che la maggior parte degli intervistati richieda un welfare più efficiente e modulato sui nuovi bisogni di protezione. Tra le azioni possibili, la maggioranza degli italiani individua l’eliminazione degli sprechi e un maggiore coinvolgimento del privato nel sistema previdenziale e sanitario, stante il ruolo prevalente e di garanzia dello Stato: per il 57,4% il terzo settore e le imprese devono avere un ruolo maggiore nella gestione e nell’erogazione dei servizi sociali. Solo il 15,7% ritiene invece che i servizi forniti dal pubblico siano migliori, mentre il 14,6% preferisce mantenere lo status quo, per il semplice motivo che può usufruirne in forma gratuita. Allo stesso tempo, gli intervistati richiedono un sistema più responsabile e vicino, anche geograficamente, alle loro esigenze: infatti, il 59% del campione dichiara di volere che le amministrazioni regionali si occupino di questi servizi con sempre maggiori responsabilità. Alla luce, poi, del quadro delineato dall’indagine, assicuratori e consumatori confermano la propria intenzione di continuare a lavorare insieme, per condividere proposte finalizzate a una maggiore e concreta tutela dei cittadini, in un’ottica di “welfare mix” (quello indicato anche da Epifani) inteso come maggiore integrazione tra servizi pubblici e privati. La ristrettezza delle risorse pubbliche e la contemporanea esigenza di non tagliare le prestazioni sociali impongono, infatti, di valorizzare l’apporto e la collaborazione di tutti i soggetti (volontariato, terzo settore, profit) che possono concorrere alla riorganizzazione del sistema per il bene del Paese. Fra i dati, secondari, del rapporto, uno ci preoccupa ulteriormente. Si tratta di quello secondo cui il medico gode sempre di considerazione, ma per avere informazioni su salute e malattia a farla sempre più da padroni sono internet e tv. Secondo questi dati i media sono sempre più utilizzati come prima fonte di informazioni:nel 2010 il 64% degli italiani le ha cercate su tv e radio e il 18% su internet. In generale il 59% degli italiani e’ sempre interessato ai temi di salute, e il 75% si ritiene informato. Gli utenti sono stati 23 mln nel 2009, di cui 16,6 per notizie su salute. Questo, naturalmente, poterà ad autodiagnosi ed auto prescrizioni a dir poco pericolose. Ketty Vaccaro del Censis, intervenuta a Roma a un workshop sui vaccini, organizzato da Farmindustria, ha commentato tutto ciò affermando che, il 40% di coloro che si informano su web e vecchi media, assicurano di mettere in pratica quanto appreso, soprattutto per ciò che riguarda la prevenzione e gli stili di vita. Addirittura, il 26% assicura di aver modificato di conseguenza le proprie abitudini, mentre solo il 12%, dopo aver assunto informazioni, ne discute col proprio medico. Insomma, in questa Italia isolata e spaventata, disorientata e disinformata, l’autogestione della salute si sta trasformando in un’automedicazione selvaggia, influenzata, spesso, dalle campagne pubblicitarie. Per scegliere da solo cure e rimedi il paziente-consumatore deve fare un salto di qualità e non può, ad esempio, pensare di cavarsela estorcendo medicine con obbligo di prescrizione a farmacisti più o meno privi di scrupoli. Così come un salto di qualità deve farlo fidandosi del proprio medico e non richiedendo indagini ed analisi random, solo perché sono di moda. Insomma, io credo, si debba in questa situazione congiunturale, rivedere il concetto stesso di salute, un concetto che si fa ogni giorno più ampio, meno legato alla semplice assenza della malattia ed include non solo la prevenzione, ma addirittura il benessere individuale, come sostiene la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità. E’ per questo che si inizia a parlare di “automedicazione responsabile” e per saperne di più l’Assosalute (che riunisce le aziende di Federchimica produttrici di farmaci da banco) ha creato pochi giorni fa un Osservatorio sull’Automedicazione Responsabile, con l’obiettivo di stendere un rapporto completo sul settore, in modo da “informare chi informa”. Per curarsi da sé senza correre rischi vi sono regole precise che paradossalmente rilanciano il ruolo del medico di base e del farmacista come figure importanti nel processo di educazione del futuro “paziente autogestito”. I vantaggi e le potenzialità dell’automedicazione sono molti, come dice Gadi Schoenheit, presidente di Intermatrix, la società che curerà le analisi socio-culturali dell’Osservatorio di Assosalute. Bisogna poter contare su precisi punti di riferimento, specialmente per quel che riguarda la scelta dei farmaci e dei percorsi diagnostici utili ed efficaci. Deve avvenire, insomma, un incontro tra due conoscenze, entrambe insostituibili: quella del paziente, che conosce se stesso meglio di chiunque altro ed ha il diritto di sapere cosa fare per mantenersi sano e le competenze specifiche degli operatori sanitari, così come, in campo politico, occorrerebbe un incontro virtuoso fra bisogni dei cittadini e coscienza amministrativa e prospettica dei politici chiamati a rispondere i bisogni in base alle risorse. Ci dicono psicologi ed antropologi che la paura è un sentimento che lede la ragione, con il suo potere di tormentare: porta angoscia nel cuore e nella mente; tortura con le sue ansietà e la sua confusione; rode la confidenza, il senso della felicità, della pace e della serenità. Fu Giobbe che, dopo aver perduto la sua salute, la felicità, i suoi cari e la prosperità, si sedette sulla cenere in mezzo alla calamità e confessò: ” Non appena temo un male, esso mi colpisce; e quel che mi spaventa, mi piomba addosso “. Dovremmo imparare che la paura paralizza ed indebolisce, vincola e fa stagnare, impedisce il ragionamento e è funzionale a chi detiene il potere: economico, farmaceutico, politico e via dicendo. Dovremmo anche imparare che la paura si vince con un atto di volontà, cercando solidarietà e non isolamento, cambiamento e non status quo. La paura, ci dice la psichiatria, ci porta a non riconoscere più il “giusto” e “l’errato”, conducendoci a commettere azioni al di fuori di qualsiasi logica, dettate solo dall’istinto. Se esaminiamo il terrore umano e quello animale riscontriamo veramente poche differenze, l’unica differenza sta nel fatto che l’uomo può controllare questo suo stato di paura con ragionamenti logici, mentre l’animale si limita a seguire l’impulso e quindi tenta di difendersi fino alla fine, molto spesso senza riconoscere, nel caso di un animale domestico, neanche il padrone. Allora con Elena Puccini (La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, 2009), dobbiamo comprendere che responsabilmente vanno rimossi i motivi delle nostre paure, scegliendo gruppi solidali e rappresentanti virtuosi di tali gruppi, in un universo in cui dalla globalizzazione, attraverso l’identificazione, occorre tornare ad un’etica del senso di responsabilità. Occorre ripensare alla vita e alle noste esigenze in termini individuali prima che collettivi, senza egoismi, ma con una concentrazione che ci dica ciò che noi crediamo, nel bene e nel male, fuori dagli stimoli che i media e l’informazione ci inculcano. Al contempo, occorre ricreare solidi e validi vincoli sociali, vincere la solitudine e l’isolamento, che ci rendono più spaventati, fragili ed angosciati. Un celebre proverbio ci suggerisce che è meglio essere soli che male accompagnati, ma questo non ci dice affatto di restare soli, bensì di cercare le giuste compagnie per noi, basandosi su assonanze, affinità culturali ed empatie. I condizionamenti attuali sulla solitudine sono fortissimi e derivano da un errore razionale molto comune nella popolazione, confondere una condizione facilitante per una necessaria: così la ricchezza è fondamentale per essere felici, avere un partner altrettanto, fino ad arrivare alla “necessità di non essere soli”. Se il condizionamento è recepito in maniera totalmente acritica può avere effetti devastanti. Sembrerebbe che la strategia antisolitudine più efficace sia quella di avere oggetti d’amore che riempiano la nostra vita. Ed è così. Il vero problema all’attuazione della strategia è che spesso per avere molti oggetti d’amore, per essere avidi di vita, occorre avere una grande capacità d’amare. Va da sé che i sentimenti trasversali come l’invidia possano facilitare molto la solitudine. E poiché tali difficoltà aumentano con l’invecchiamento del soggetto (molte persone rimpiangono i tempi dell’adolescenza o della scuola in cui era molto facile avere amici e la solitudine era una parola sconosciuta), si può ritenere che, se non si corre ai ripari, sia naturale evolvere verso la solitudine dei vecchi. Infatti i vecchi sono soli soprattutto perché non riescono più a gestire bene i rapporti umani (a differenza degli anziani); studiando il loro tipo di solitudine e adattandolo a tutte le età. Tutto questo ci fa comprendere alla radice il motivo delle “paure” degli italiani.


06 Ottobre 2010

Categoria : Cultura
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