Commozione – L’ultima scalata
(di Carlo Di Stanislao) – Sono certo che si è spento sereno, vinto dal vento e dal gelo, mentre avanzava impavido nella tormenta, come gli scalatori di Sogni, di Akira Kurosawa. “Walter ha avuto un incidente questa mattina. Non potremo piu’ riabbracciarlo, possiamo solo ricordarlo per il grande uomo speciale che era”. Cosi’, sul suo blog, la moglie di Walter Nones ha dato la notizia della morte del marito: il 39enne rocciatore trentino, impegnato nella scalata di uno degli 8.000 dell’Himalaya, il massiccio del Cho Oyu, intento a tracciare una nuova via in quel cristallo di ghiaccio proteso verso il cielo. Nativo di Cavalese in Trentino, viveva in Alto Adige, nella Valgardena. Appuntato dei carabinieri, poteva vantare, fra l’altro, la conquista, nel 2004, del K2 senza ossigeno. Il K2 , la montagna-sogno, la montagna sopra la montagna, simile a un immenso cristallo di cui evoca la sfolgorante e misteriosa regolarità. Nel 2008 fu tra i protagonisti di una drammatica ascesa sul Nanga Parbat durante la quale morì Karl Unterkircher. Nones e Simon Kehrer riuscirono a raggiungere quota 5.700 dove, su un pianoro, vennero recuperati da un elicottero al termine di un’odissea durata 10 giorni. Ora la Dea Turchese (questo significa Cho Oyu), ha voluto per se lo spirito leggero del giovane alpinista, il suo cuore indomito, i suoi occhi ripieni della purezza delle vette. Nel settembre scorso, in vista proprio di questa scalata, Nones aveva detto che è sempre “la montagna a decidere se farsi scalare” ed ora, dopo la morte scampata nel 2008 e l’abbraccio gelido e definitivo di ieri, sono in molti a domandarsi cosa spinga un uomo a rischiare tanto. Livio Lupi, guida alpina del Cai di Conigliano, sei anni fa ha detto che, di solito, chi esprime giudizi sulla Montagna e sui suoi frequentatori non è un alpinista esperto, un gestore di rifugio o una guida alpina; spesso è chi non ha esperienza diretta, che pontifica, critico, nei confronti di chi “si sia cercato la morte sotto una valanga”, o sia “andato in cerca” dell’ incidente”. In realtà, dovremmo riflettere che da sempre, per l’uomo, andare in montagna significa accettarne le regole, conoscere e rispettare l’ambiente, mettersi a diretto contatto con la Natura, significa anche grande attività fisica, sforzo, alle volte spingere il proprio motore al limite, anche esponendosi a qualche rischio. Andare in montagna può voler dire raggiungere una vetta, inebriarsi dell’infinito visibile solo da lassù, sentirsi vivi perché morti di stanchezza, credere ciecamente nel compagno di cordata, seguire quella passione che brucia dentro e fa guardare in alto, che mette alla prova quello che si è realmente, perché lì non è possibile imbrogliare alcuno, soprattutto sé stessi. E’ condividere con i propri compagni esperienze fantastiche, silenzi assoluti, vedute indescrivibili, gioia, divertimento, sole; ma anche fame, sete, stanchezza, paura, freddo, temporale, fatica ed infinito. Andare in montagna è sentirsi parte di essa, infinitamente piccoli in mezzo ad un mare di roccia, neve, nubi, cielo; come granelli di sabbia nel deserto. Dall’antico si onorano rocce e pietre e le si fa partecipi della valenza generale dell’elevazione, ponendole in verticale. In montagna la dimensione verticale è naturale e associata a ciò che è massiccio e dunque possente, ma anche calmo ed equilibrato fin nelle sue nascoste radici rocciose. La montagna è presente nella letteratura fin dalla notte dei tempi, fin da quando l’uomo ha iniziato a scrivere, si pensi alla Bibbia, con Noè il monte Ararat e l’Arca, il Sinai L’Oreb il monte di Dio e Mosè, il Calvario stesso e Gesù, la letteratura greca (ad esempio Senofonte e l’Anabasi,) quella romana con gli storici e i geografi, mirabili le descrizioni di Strabone ancora oggi utilissime. Una montagna, da noi uomini, è una realtà che non può essere, in assoluto, ignorata, con la vetta che è una cupola regolare che riposa gli sguardi e invita alla presenza. Qui furono posti gli ed è bello credere che ancora vi risiedano. Ha scritto l’alpinista e scalatore cristiano David Berg, che le cime dei monti non sono mai affollate, perché è faticoso arrivarci. Solo i pionieri scalano le montagne: le persone che vogliono fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima, che vogliono innalzarsi oltre le folle, al di là di tutto ciò che è già stato realizzato. I pionieri devono avere una visione, la visione di cose che nessun altro riesce a vedere e Walter Nones aveva quella visione, inseguendo la quale ha dato sostanza alla sua intera, breve, ma intensa esistenza. E’ meglio morire sulla montagna che vivere nella valle, recita una antica ballata della Val di Non e, per alcuni, questo tragico verso diviene una ragione autentica di vita, fino all’ultima, estrema avventura. Nel suo film Illuminazione Krzysztof Zanussi ci dice che in montagna, chi ha cuore puro, può ascoltare la sua autentica voce interiore. Sul Cho Oyu, un’attimo prima della fine, Walter quella voce l’ha certo sentita. L’accampamento dei falsi guru in un cimitero alle pendici della Montagna Sacra, con il profeta delle droghe (allusione esplicita all’allora famoso Timothy Leary) convinto che il segreto sia tutto lì, o il ‘maestro’ capace di percorrere la Montagna, ma “solo in senso orizzontale”; il finale estraniante e brechtiano in cui i nove immortali in cima alla Montagna vengono smascherati rivelando solo dei fantocci, l’Alchimista (impersonato da Jodorowsky stesso), guida della spedizione, si fa beffe dei suoi discepoli; tutto quanto descritto da Jodorowsky ne La Montagna sacra Nones l’ha rovesciato, dimostrando con la sua vita e la sua morte, che la montagna è un’idea verticale da percorrere fino in fondo, fino a raggiungere, eternamente il cielo.
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