Gasbarrini, il terremoto e le carriole
L’Aquila – Antonio Gasbarrini ha pubblicato sulla rivista culturale Tracce un articolo sul terremoto, che riproduciamo integralmente: “A Pino Bertelli compagno di strada ad honorem del Popolo delle carriole.
A quanto ne so, Mr T, nelle sue micidiali fuoriuscite in terra aquilana, ne aveva viste di tutti i colori. Ben oltre le frequenze lunghe dell’infrarosso e quelle corte dell’ultravioletto. Nel Novecento anche lui avrebbe fatto parte di quell’inestricabile groviglio di onde elettromagnetiche e non, con l’eufonica metafora di “onda sismica”. Per gli aquilani doc, e non solo, prima di allora era stato nominato con il più realistico “tremuoto”. La cui incerta etimologia può spaziare dall’aggiornato lessico “terremoto”, ai tre movimenti (ondulatorio, sussultorio e ondulatorio-sussultorio) con cui aveva ritmato la sua infernale, sincopata danza scatenata dalle 3.32 alle 3,50 circa del 6 aprile 2009.
I tragici risvolti umani l’ho narrati fino a pagina 239 del libro J’Accuse!!! Il terremoto aquilano, la città fantasma & l’inverecondo imbroglio mediati- co del sig. b. L’ultima, la 240 ^, l’avevo volutamente lasciata in bianco. Per i tuoi appunti, amico lettore, ma anche per una felice intuizione. La storia della diaspora inferta a tradimento dal sig. b. agli ultimi discendenti intra ed extra moenia della “mangifica citade” – evocata a più riprese, nelle pagine precedenti, con i versi del cantore trecente- sco Buccio di Ranallo – sarebbe continuata ben oltre la data del 23 maggio 2010.
In quell’afosa domenica primaverile il Popolo delle carriole aveva simbolicamente occupato uno dei più prestigiosi spazi cittadini sostanzialmente risparmiato dall’incontrollabile furia di Mr T: Collemaggio! Quel colle sormontante l’attigua Basilica di S. Maria di Collemaggio eretta dall’eremita Pietro del Morrone. Qui incoronato Papa sul finire del Duecento.
La giornata l’avevo fedelmente fotografata e descritta nel decimo fo- toracconto incluso nell’ Intermezzo della “Cronica non rimata”. Da qui cercherò di riprendere le fila del discorso sulle avventure e disavventure del Popolo delle carriole bruscamente interrotto. Prolungandone gli esiti parari- voluzionari fino all’agostana Perdonanza del 2010. Ancora una volta, la quinta scenografica dei versi di Buccio farà da sfondo al tutto: «Dapoi che San Petro inconorato fone, / allora a Collemagio la in- dulgenza dunone».
Ecco i momenti salienti di quello che si sarebbe rivelato un insanguinato trimestre: le cartoline nero-verdi degli aquilani ridotti in mutande; la marcia dei 20.000 e l’occupazione dell’autostrada A24; le poliziesche manganellate romane; le contestazioni, nella Festa del Perdono, agli impresentabili finti ricostruttori della città morta.
Mr. T, come ho già detto, pur essendo iperesperto nei colori, ne prediligeva uno: il rossosangue dei
terremotati. Si esaltava come un drogato per il suo inimitabile cromatismo. Più di tutto lo ammaliava, comunque, la sinestesia da lui inventata millenni e millenni prima dei futuristi. Voila gli ingredienti principali delle sue non effimere installazioni: rimbombo, frastuono, urla, macerie, polvere, esalazioni, rossosangue. Si aggiunga l’odore pungente della morte. Non fosse altro che per questa sua collaudata esperienza, non riusciva ad interpretare l’inusuale trinomio manganello / sangue / terremotato. Non aveva mai visto nulla di simile. Quel martirizzato sanguerosso romano non lo convinceva. Era un’imitazione. Una griffe falsificata. Contro natura. Contro la pacifica natura del Popolo delle carriole.
Cercherò di ripercorrere gli ante ed i post fatti. Com’è nella mia cifra stilistica, non li romanzerò. Nudi e crudi. Un referto. Una “Cronica non rimata”, appunto.
LA DISSACRANTE DOMENICA DELLE MUTANDE
Iniziamo dalla dissacrante domenica delle mutande. Siamo ai primi di giugno del 2010. Dopo il far- sesco G8 allestito a L’Aquila dagli affiatatissimi compari B&B nel luglio dello scorso anno, i potenti (con la p minuscola!) della terra avevano promesso mari e monti per la ricostruzione di alcuni dei suoi gioielli architettonici pressoché sbriciolati con molta nonchalance da Mr. T. Alla prova degli eu- ro, non se n’era fatto quasi nulla. A parte qualche marginale eccezione (Francia, Germania ed un paio di altri Paesi), la colletta internazionale propugnata dal tirchissimo miliardario di cosa nostra (pardon!, casa nostra) era così miseramente fallita. A quegli stessi grandi riunitisi nell’allargato G20 di Toronto, il Popolo delle carriole aveva inviato, con una serie di e-mail, delle fo- to-ricordo. Facendosi riprendere in gruppo su un palco in Piazza Duomo. Davanti alla Chiesa delle Anime Sante insieme a preconfezionate cartoline mostrate tra le due mani. Le aveva già stampate l’ot- tima fotoreporter L. C. Ognuna di esse era esibita come un esorcistico memento mori della città ac- coppata. Recavano immagini del loro inopportuno tour nella sfasciata zona rossa, nonché scritte in inglese. Di ringraziamento per chi aveva onorato l’impegno; di sollecitazione per lo smemorato Obama. Al sig. b. , invece, la sarcastica icona del caro amico M. G. fattosi volontario là per là. Fotogra- fato di spalle con i pantaloni scesi, mentre al di sopra dello slip nero campeggiava l’irridente frase (sempre in inglese) “Grazie al Presidente Berlusconi per averci lasciato in mutande”. La subdola vendetta del sig. b., per lo smacco subito a livello internazionale, e che livello! non si sarebbe fatta attendere. Più in là scor- reremo le nefaste conseguenze.
Ed il nostro Mr. T? Mr. T conosceva molto bene la dolorosa dinamica di ogni sua seria sortita. All’Aquila, dove alle 3.32 aveva preso la rincorsa, con un’accelerazione gravitazio- nale senza precedenti, aveva previsto tutto. Più o meno, la distruzione dell’intera città. Non già l’insulsa deportazione dei suoi 70.000 abitanti. Svuotata in un paio di giorni dal terrore incombente come una ta- gliente lama della ghigliottina. Sigillata su- bito, dalla Protezione Civile, alla stregua di una bara. Attorniata dalle dissuasive grate militarizzate sfondate poi a più riprese dal- l’incazzato Popolo delle carriole.
LA PACIFICA INVASIONE DELL’AUTOSTRADA A24
Quello stesso Popolo fattosi promotore, insieme alle decine e decine di comitati spontanei affluiti stabilmente nel Presidio permanente dei cittadini nel bianco tne di Piazza Duomo, di una delle più riuscite manifestazioni democratiche nello squinternato neo-Stra- paese di stretta osservanza leghista. Lanciando un accorato
S. O. S. (acronimo di Sospensione tasse, Occupazione, Sostegno all’economia) all’intera nazione. Da una comunità ridotta allo stremo. Grazie anche ai tanti miracoli virtuali profusi dai massmedia ad- domesticati dalla scurrile propaganda del sig. b. Agli sfigati cittadini aquilani, nel frattempo diventa- ti i più poveri d’Europa, restava una sola magra prospettiva. Restituire integralmente, dal 1 gennaio prossimo e nel giro di 1-2 anni, le tasse a suo tempo sospese. Per i terremotati umbri le cose erano an- date molto diversamente. Rimborso all’erario del solo 40%, dopo 10 anni dall’evento ed in 120 rate. La Giustizia governativa doveva avere qualcosa che non andava nei suoi piatti. Evidentemente trucca- ti. Più o meno come era già avvenuto nel Cinquecento tra le possenti mura della città federiciana nel commercio dello zafferano: «[...] S’intende che detti fattori, merciai ed altri che comprano zeffrano per consigliarli o rivenderli alli mercanti sogliono tener doi sorti de pesi, uno falso et l’altro bono, et li falso teneno nascosto in alcuna cascetta o scattola et lo bono et giusto teneno pubblicamente et così gabbano e fraudano li poveri venditori […]». Lasciamo perdere la citazione. Torniamo all’occupa- zione dell’autostrada A24.
Nel primissimo pomeriggio di quella straordinaria, epopeica giornata, l’appuntamento alla Villa
Comunale. Questa volta senza carriole. Al suo posto la t-shirt riproducente la bellissima vignetta-logo di Staino. La sorridente silhouette di un carriolista che al posto delle macerie trasporta un gigante- sco, vibrante cuore. Anch’io la indossavo. Per meglio dire, la sfoggiavo con sfrontato orgoglio.
Le decine e decine di striscioni, le bandiere nerovordi, il brulichio delle fasce tricolori dei sindaci del
cosiddetto cratere aderenti alla manifestazione, bambini, giovani, adulti, anziani e vecchi via via più numerosi, lasciavano ben sperare. Il tragitto, con l’attraversamento del budello puntellato del Corso fino alla Fontana Luminosa, e poi giù giù fino all’autostrada, era di svariati chilometri. «Quanti ne siamo?». A mano a mano che il serpentone si allungava, la cifra passava dall’iniziale qualche migliaio a ventimila. «Ventimila?». Questo sì, uno dei più strepitosi miracoli avvenuti, dal medioevo sino ai
nostri giorni, nella religio- sissima città delle 99 Chiese. A dire fino in fondo la verità il nostro immancabile mate- matico-architetto Pico Fonticulano, nella seconda metà del Cinquecento ne aveva elencate 110. Poi era soprag- giunto Mr. T con la sua pun- tuale dote di distruzione e morte. Correva l’anno del signore 1703. Molte chiese non furono “rialzate”. Ed oggi? Per la messa in sicurezza delle zone rosse, stanno puntellando, con molto ritardo ed a carissimo prezzo, di tutto e di più. Anche centinaia e centinaia di edifici, chiese comprese, che dovranno essere abbattuti.
Ma, lasciamo perdere questa spinosa questione. Torniamo alla fragorosa marcia dei ventimila. Decisi a tutto. Solo la forza della disperazione poteva condurli in massa verso l’obiettivo ultimo della loro sacrosanta protesta.
In un non-Paese dove l’impunita illegalità sembrava essere esclusivo appannaggio del sig. b. e degli
altri banditi della cricca, gli aquilani terremotati (carriolisti in testa), erano stati costretti dall’igna- via governativa, a praticarla alla luce del sole. Occhio per occhio…Creando ovviamente disagi agli automobilisti di passaggio. Tutto questo casino, messo su per richiamare l’attenzione dei mass-me- dia. Una questione decisiva per la loro disarmata e disarmante battaglia. Le ottimistiche previsioni si sarebbero, però, rivelate del tutto erronee. Spossati dopo la lunga marcia, erano finalmente arrivati in buonissima parte alla meta. A quel che ricordo, il primo tratto dell’agognato asfalto era presidiato da polizia, carabinieri e autoblinde. Troppi pochi ostacoli per contenere la dilagante fiumana. In Ita- lia, forse nel mondo, non s’era mai visto nulla di simile. Sembrava di assistere ad una transumanza. Di ex pecore assuefattesi a masticare l’erba finta seminata nei dintorni della città diruta dal sig. b. nei primi propagandistici mesi del post-sisma. Metamorfosizzatesi, nell’hic et nunc della loro rivolta contro il finto donatore delle cimiteriali c.a.s.e.t.t.e., in cittadini. E che fior fiore di cittadini! Quasi Repubblicani. Anche se, per i più, a solo livello inconscio.
Lo stesso Mr. T era rimasto sbalordito da quelle migliaia e migliaia di aquilani ripresisi dallo scioccante KO inferto nella tremebonda notte di aprile. Per loro fortuna il suo orologio magnetico era stato sintonizzato dalla Natura nelle ore notturne. Se lo scatafascio fosse avvenuto nella tarda mattinata con uffici, negozi, scuole, fabbriche, in piena attività, la maggior parte non avrebbe traguardato caselli. Solo gli irreversibili confini dell’Ade. Forse, per quest’ultima considerazione, s’aspettava un po’ meno d’antipatia. Non che il merito della scampata strage fosse suo. Fortunatamente per noi di- scendenti di Federico II, era stata sua maestà il caso a decretarlo. Caso ch’è anagramma della parola caos. Né aveva alcuna parentela con simil acronimi quali c.a.s. (contributo autonoma sistemazione) o c.a.s.e. (complessi antisismici sostenibili ecocompatibili). Paroloni spacciati ad arte, subito dopo il sisma, per confondere la reale fisionomia di una lancinante realtà….
Appena varcata la soglia sino ad allora interdetta ai pedoni di questa terra, grida di gioia, applausi e
lacrime gonfiavano petti e rinforzavano oltre ogni dire le provate gambe. Un ciclista faceva lo slalom tra i suoi concittadini. Tre delle cinque frecce direzionali orientate a sinistra indicavano, in sequenza, Roma, Chieti Pescara A 25, Avezzano A 25. Le ultime due, puntate a destra, Teramo, Pescara. Un solo, corale urlo, agitava le bandiere neroverdi: Roma! Roma! Roma! Dopo un altro paio di chilometri, l’inversione di marcia ed il soddisfatto rientro a casa. Quale casa? «Ma, mi faccia il piacere!» avrebbe detto l’insuperabile Totò. I loculi-c.a.s.e.t.t.e. del sig. b.? Gli scricchiolanti MAP? Le stanze militaresche nella Guardia di Finanza? Le camerette d’albergo? Le capannine in legno? I campers? Le case prese in fitto, fuori città? I containers?.
Mentre scrivo, a circa un anno e mezzo dal sisma, 56.000 persone, diconsi cinquantaseimila, sono
ancora assistite. Tra disoccupati e cassintegrati si sfiora la cifra di 18.000. Oltre 1.000 gli esercizi commerciali chiusi. Gli studenti universitari fuori sede dormono nei sacchi a pelo per carenza di posti letto. Le arti e le professioni a ramengo…
Quella bruciante autostrada espugnata con la dirompente energia di cuori pulsanti, non aveva porta- to da nessuna parte. Infatti, poche ore dopo, gli ingrigiti visi ridipinti a nuovo da una taumaturgica felicità, si sarebbero rabbuiati. Era sembrata un’eroica impresa. S’era rivelata un flop mediatico. Non già per demerito deimarciatori. All’impudente sig. b. era stato sufficiente spegnere le telecamere delle cinque reti nazionali tv as- servite, delle altre decine e decine di quelle locali, dei canali radio e dei giornali controllati per il tramite di un vero e proprio esercito d’inossidabili lecchini-mer- cenari di professione. Mis- sione compiuta. Evento oscurato. Il trionfo della po- sticcia realtà ammannita al mondo intero. A L’Aquila tutto filava liscio. Anzi: doveva filare liscio. Il mezzo uomo del fare dava per risolte contraddizioni su contraddizioni in cui contivano, purtroppo, a rimanere impaniati gli aquilani. Me compreso. Tuttora naufrago nella costa teramana.
LE POLIZIESCHE MANGANELLATE ROMANE
Con la vincente mossa del sig. b. il governo ed i filogovernativi locali pensavano di aver messo una pie- tra tombale su ulteriori tentativi di rivolta. Il dissestato bilancio statale, grazie all’afflusso finanziario di un paio di miliardi di euro (le tasse sospese, ma restituite dagli aquilani), era stato salvato! Così la pensavano, e tuttora la pensano, il ragionieristico ministro delle finanze Giulio Tremonti ed i suoi accoliti leghisti. Evidentemente non conoscevano nemmeno una riga della plurisecolare storia della nostra città. Molti suoi splendidi monumenti, prima della cinquecentesca invasione spagnola, erano stati cesellati da Maestri provenienti dal nord dell’Italia. «All’interno della chiesa di S. Maria di Collemaggio a conclusione della navata di destra v’è il sepolcro di S. Pietro Celestino, sontuosa opera di Rinascimento lombardo firmato da Girolamo da Vicenza e commissionato dalla Magnifica Arte della Lana. È datata 1517». Per favore, silenzio: sta parlando lo storico Alessandro Clementi. Non a caso una
delle malridotte vie insistenti in pienazona rossa è Via dei Lombardi. Via dei Padani sarebbe stata un falso storico. Come i grotteschi riti celtici.
Quanto al sepolcro, Mr. T, aveva provato a sfasciarlo completamente. Già lo aveva tentato, senza successo, nel 1703. Adesso c’era riuscito in parte. Che poi il corpo del venerato santo fosse stato tempora- neamente sfrattato, non lo rammaricava più di tanto. Né tanto meno irrideva allo strampalato tour delle sue spoglie impo- sto dalle gerarchie ecclesiali.
Ritornando ai terremotati, la loro “te- stu(rda)ggine” è proverbiale. Il neologi- smo “testu(rda)ggine ad quid? Si è auto- imposto È un concentrato lessicale di te- stardaggine, coriaceità e longeva lentezza. Del Popolo delle carriole e degli aqui- lani tutti. È sottinteso. Il suo più profon- do significato il 7 luglio lo avrebbe mal digerito anche il sig. b.
In quella giornata romana imbrattata dal sangue delle poliziesche manganellate, era in corso l’approvazione della legge finanziaria. Imponeva l’estorsione del- le tasse dalle strabucate ta- sche dei terremotati.
Di buon mattino, una set- tantina di autobus, macchine private e moto partivano alla volta della capita- le. Unici simboli ammessi al corteo di protesta organizzato dal Presidio permanente dei cittadini – di cui Il Popolo delle carriole costituisce tuttora la spina dorsale – centinaia e centinaia di bandiere neroverdi, striscioni , t-shirt personalizzate con im- magini e frasi attinenti al terremoto. Un particolare per tutti. Le aste delle bandiere, in plastica. Leg- gerissime ed inoffensive. Per quanto mi riguarda, indossavo la fedelissima maglietta bianca effigiata da Staino.
L’appuntamento a Piazza Venezia. Da lì, passando per Via del Corso, ci si sarebbe diretti verso il Senato. Tutto pacifico? Macché! La prima brutta sorpresa per il tracimante fiume in piena aquilano – eravamo in 5.000 – si materializzava all’imbocco di via del Corso. Ostruita da mezzi blindati dei carabinieri in assetto antisommossa. Ma come!? Il percorso era stato preventivamente concordato con la questura. Da chi e perché il nazistico ripensamento? Abituati a sfondare i fili “quasi spinati” cingenti le zone rosse della loro militarizzata città, gli aquilani non ci avevano pensato due volte. Premevano, premevano, premevano…A L’Aquila, in un modo o nell’altro tutto aveva funzionato alla perfezione. Nella Roma metropolitana il ferreo sbarramento non si spostava di un millimetro. Né tanto meno, le urla d’indignazione commuovevano gli induriti agenti. Poi, all’improvviso, manganellate su man- ganellate. Teste rotte. Corpi ammaccati. Sangue. Una pura offesa alla dignità d’un intero popolo ri- dotto all’esilio ed alla fame. Un mancino colpo di mano neofascista alla democrazia ed alla solidarietà nazionale..
In questo preciso momento anche Mr. T aveva strabuzzato i miliardi di particelle-occhi delle sue on-
de, innestando un “retromoto” di ripulsa per quel sanguerosso innocente che non aveva nulla da spartire con l’irriconoscibile rossosangue. Le 308 vittime ed i circa 2.000 feriti ne avevano sparso a iosa tra i calcinacci della città azzerata. Le sue sfuriate non erano state mai un divertissement fine a se stesso. Piuttosto una lezione, amara quanto si voglia, ma anche un monito. «Costruite per il futuro solo case antisismiche. Nella rico- struzione a venire della vostra città pompeiana rendete tali, quelle meno recenti e d’epoca. Non limitatevi a rattopparle. Per ogni edificio, individuate in anti- cipo la sottostante porzione della faglia-amaca in cui riesco a son- necchiare anche per vari secoli». E ancora: «Solo a queste condi- zioni, non vi strapperò nemmeno un capello. Anche se la paura lo avrà fatto drizzare. Vedrete. Al mio apparire non scapperete più.
Anzi. Vi invito con molto anticipo a ballare con me. Si tratterà di un’erotica danza bacchica. Capirete finalmente la sacralità ctonia dell’iniziazione eleusina». Né queste ultime enigmatiche parole-onda, né tanto meno i gratuiti consigli di Mr. T , erano riusciti ad incunearsi tra i lamenti di quella decina di corpi riversi ed il concitato vociare della massa inferocita. Capito l’inganno, una parte consistente faceva dietro front occupando le strade attigue di Piazza Venezia. Il traffico impazziva all’istante.
Con la decisiva, contestuale mediazione del sindaco C. e del parlamentare L., anch’essi manganellati, le forze dell’ordine promettevano finalmente lo sgombero delle antidemocratiche autoblinde nel gi- ro di una decina di minuti. Ma, gli imbroglioni di Stato, la sanno sempre più lunga dei “loro” pre- sunti sudditi. La proposta ricompattava il fronte, liberando così le strade occupate. Il traffico si ri- normalizzava. I dieci minuti diventeranno oltre un’ora. La spasmodica attesa del via libera, sotto un sole cocente. Temperatura 38 gradi all’ombra. Anziani e bambini (sissignori, c’erano anche molti bambini con relativi genitori, zii e nonni), accusavano il colpo. Malori su malori.
Finalmente la vittoria! Così sembrava. Dopo aver percorso alcune centinaia di metri, all’altezza di Piazza Colonna, un nuovo sbarramento. La palese presa per i fondelli: stordire, sino allo stremo, gli indesiderati 5.000 “forsennati”.
Con mille stratagemmi m’ero avvicinato il più possibile a Palazzo Grazioli. Sullo sfondo, facevo ap- pena in tempo a notare la tempestiva chiusura del grande portone. Masticavo amaro. Per quell’ol- traggioso affronto, un’“asocratica” cicuta l’avrei fatta bere, ed a forza, al sig. b. Che mascalzone! Quello stesso portone rimasto sempre aperto per avventurieri e puttane (da Giampi alle tantissime neo risemantizzate escort allietanti le sue boccaccesche nottate) veniva sbattuto in faccia agli “strac- cioni” terremotati. Avevano sfidato il Potere Imperiale del neo-Napoleone plasticato. Osato battersi per reclamare diritti statuibili con leggi. Rifiutato ogni forma di elemosina sino ad allora parsimoniosamente elargita dall’ometto del fare (affari propri) con benevoli ordinanze. Che sfrontati! Che ingrati!
Dopo ulteriori tira e molla con le forze dell’ordine, la notizia dell’accoglimento parzialissimo, nella legge finanziaria, delle richieste. Dilazione della restituzione delle tasse in dieci anni a partire dal 1 gennaio 2011. Una sostanziale sconfitta. Da Piazza Colonna, il successivo sit-in dei defraudati aquilani si concludeva simbolicamente nella vicina Piazza Navona. Lo sventolio delle bandiere neroverdi e il ritmato grido “L’A q u i l a! L’A q u i la!” facevano intendere una sola cosa. L’appuntamento decisivo con il sig. b. e con il suo “sforbiciante ministro”, era stato rimandato di qualche mese.
Anche in questa occasione, il consueto oscuramento massmediatico, aveva salvato la faccia sempre più imbellettata e sporca del ghignante, soddisfattissimo, P. M. (primo ministro). La “tetra ombra” del Pubblico Ministero (P. M.) continuava a minacciare le sue insonni notti. Lode ai Lodi. Le tintinnanti manette: il sogno proibito di milioni di italiani.
PERDONO O NON PERDONO? THAT IS THE QUESTION
L’antifona di quanto sarebbe avvenuto il 28 agosto, dedicato alla Festa del Perdono ed al relativo cor- teo celebrativo, nonché degli altri avvenimenti rinarrati più sopra, si era già sentita alcuni giorni prima della fatidica marcia sull’autostrada. Doveva essere l’11 giugno. La stupenda facciata biancoro- sata a coronamento orizzontale della Basilica di S. Maria di Collemaggio era stata appena liberata dai ponteggi. Ingabbiata, dalla Sopraintendenza ai monumenti, ben tre anni fa. Un felice restauro che aveva indispettito Mr. T. Le ragioni? Semplici. Aveva infierito sui tre rosoni trinati sovrastanti altret- tanti spettacolari portali, sulle sculturine e sugli affreschi delle lunette con la stessa determinazione con cui all’interno era riuscito perfettamente a far sprofondare volte, divelto colonne, mescolato in un informe poltiglia affreschi, tele seicentesche, arredi sacri, organi d’epoca ed ogni altro ben di dio qui accumulato nel corso di oltre
sette secoli. Nemmeno un graffio.
E adesso, paziente lettore, comin- cia il bello. Si fa per dire. Con la solita faccia evanescente degli incalliti venditori di fumo s’erano presentati di buon mattino i sotto- sottosegretari (non è un refuso; il secondo “sotto” è sinonimo della loro totale sottomissione alle lo- sche trame mediatiche e golpiste del sig. b.) Gianni Letta e Guido Bertolaso. Ben accompagnati dal
tentennante sindaco della città, dal belloccio presidente della regione e da altri protagonisti della fal- limentare non-ricostruzione della mia città: sparita! Tutti d’amore e d’accordo per farsi immortalare davanti alla parte integra della squinternata gemma architettonica. Li aspettava una brutta sorpresa. Due, tra le carrioliste più attive (A. L. B. e G. P.) insieme ai giovani del comitato di base 3.32, contestavano a viva voce e con vistosi cartelli, gli artefici della tentata truffa mediatica. Governo e Protezio- ne Civile non c’entravano infatti nulla con il pluriennale restauro, né tanto meno avevano speso un solo euro. Una significativa sintesi della contestazione era stata la scritta “Basta passerelle. OPERA- ZIONE DI FACCIATA”.
I malcapitati sottosottosegretari, in mancanza degli applausi normalmente garantiti dalle claques orchestrate dal loro piccolo capo (capetto), riparavano velocemente all’interno attraversando la Por- ta Santa. Commettendo perciò un autentico sacrilegio. Quella stessa Porta, così come aveva vergato su pergamena Celestino V nella Bolla datata 29 settembre 1294, poteva essere aperta una sola volta all’anno, il 28 di agosto. Chi l’attraversava – fino al giorno dopo, “pentito e confessato” – avrebbe beneficiato dell’indulgenza plenaria («[..] annualmente assolviamo dalla colpa e dalla pena, che me- ritano per tutti i loro delitti, commessi sin dal battesimo, tutti coloro che veramente pentiti e confes- sati saranno entrati nella predetta chiesa dai vespri della vigilia della festività fino ai vespri immediatamente seguenti la festività (decollazione di S. Giovanni Battista, n.d.a)».
Persino Mr. T aveva tentato di forzarla con largo anticipo il 6 aprile del 2009. Non certo per lucrare
paradisiaci approdi. Per un perverso gusto? Si. Trasgredire, com’era il suo solito, qualsivoglia cano- ne. Caos, asimmetrie e “maceriato” disordine erano le costanti paesaggistiche a lui più congeniali. Gli aquilani tutti, in merito, ne sapevano qualcosa. Ed i nostri due trasfughi? L’avrebbero pagata, cara, molto cara. Non si sa se per una bella tirata d’orecchie di Celestino sempre disponibile al Perdono o per un poderoso calcio nel sedere sferrato da Mr. T. Stando a quanto sarebbe poi successo durante la Perdo- nanza, la seconda ipotesi è la più credibile.
Veniamo ai fatti. Nell’assemblea permanente dei cittadini in Piazza Duomo si decideva di partecipare in coda, e per- ciò al di fuori del program- mato corteo pieno zeppo di hollywoodiani figuranti me- dioevali, con le carriole. Riempite con i nomi delle vie e dei vicoli della città sfracellata, dei palazzi, delle biblioteche, delle scuo- le, degli uffici, dei negozi, dei teatri, di tutto ciò, insomma, che aveva a che fare con la reale condizione di sofferenza dei suoi dispersi abitanti. Le invisibili macerie di anime stracciate. Anche a causa di una ricostru- zione ben in vista solo sull’alto mare della stragonfiata propaganda di re- gime. In più, con una serie di parole d’ordine. Tra esse, in omaggio allo stimatissimo Guy Debord, si confe-
zionava il cartello-tract (poi indossato) recante in successione titolo (“La nostra pacifica ricostruzione”), immagine (la riproduzione di una bella incisione di fine Settecento con relativa didascalia “LE CARRIOLE protagoniste della Rivoluzione francese”) e testo (“Anche il Popolo delle carriole aqui- lano sta ricostruendo barricate etiche e civili contro le fameliche cricche nazionali, regionali e loca- li”). Più chiaro e tondo di così….
All’appuntamento in Piazza Duomo, la solita nota stonata dell’orwelliana Digos. Ogni carriolista, schedato di nuovo, in quanto conducente di un attrezzo eversivo. Beata democrazia andata a finire, nella mia spettrale “L’Aquila bella mé”, nel cesso! Provate a portare a spasso la carriola nella vostra città. In lungo e in largo. Nessuno v’importunerà. Nemmeno il padreterno. Da noi, invece, anche l’arcivescovo si è dato molto da fare per criminalizzarci. Né sono stati da meno l’ex prefetto Gabrielli (il Popolo delle carriole = 4 cialtroni), né tanto meno il suo attuale Capo Guido Bertolaso (il Popolo delle carriole = 5 rivoltosi contro 50.000 che approvano). Entrambi asini. Non sanno contare. Eppu- re gli insiemi matematici si apprendono sin dalla più tenera età. Gli insiemi politici dall’adolescenza. Gli insiemi etici: dal primo vagito sino alla morte.
Torniamo a bomba. Per nulla intimidito, Il Popolo delle carriole (rappresentato da una trentina di carriolisti, me compreso) ed un nucleo consistente dei giovani del 3.32, tendevano il loro agguato simbolico vicino ai portici della Banca d’Italia. Applausi a non finire per la teca con le spoglie di Celestino e gli scortanti vigili del fuoco. Glaciale silenzio al tronfio passaggio di politici locali e nazionali d’accatto. Il parapiglia poi, con la polizia. I giovani, insieme ad alcuni congiunti delle 308 vittime, avevano allestito un tableau vivant costituito da una persona-lettera della frase “n o i a l l e 3 3 2 n o n r i d e v a m o”. In più avevano difeso a denti stretti, dalla solite divise intralcione, alcuni striscioni con inequivocabili parole d’ordine.“ll gran rifiuto della cricca”.“Zona rossa di vergogna”. Dulcis in fundo: “Molinari Cialente Chiodi vergogna Letta vidi de jttene!”. I primi tre bersagli coincidevano con i nomi del vescovo e del commissario (presidente della Regione) e vice-commissario (sindaco dell’Aquila) alla ricostruzio- ne. L’ultimo, con lo stizzi- to Gianni Letta (“vedi di andartene”).
Come avrai capito, caro lettore, Bertolaso non c’era. S’era dato alla mac- chia. O meglio, faceva ac- cattonaggio di cittadinan- ze onorarie nei paesini dell’aquilano. Da esibire come salvacondotti agli inquirenti per le strettis- sime connessioni persona- li e familiari con gli affaracci della cricca. Pasolini non l’avrebbe scritturato nemmeno come comparsa. Se non altro, per non sprecare 1 frugale cestino. E l’evocato Perdono? Andato a farsi fottere. Insieme a Mr. T. Nel frattempo un altro striscione veleg- giava nelle vicinanze: “Carriole Carriole Carriole”. Le ingegnose ed aguzze macerie dei carriolisti sanno solo colpire. Hanno la memoria d’un elefante. Perciò non possono perdonare. Almeno fino alla posa dell’ “ultima pietra” della loro riedificanda città.
P. S. Mentre sto scrivendo (da qualche ora “dimoro” nella mia fu città), Mr. T ha appena finito di esercitarsi nel vicino comune di Montereale con una scossetta di 3.6 della scala Richter. Arrivata, an- che se un po’ depotenziata, nel mio precario studio. L’incubo, per gli aquilani, ricomincia. Lo sciame sismico, nella zona dei Monti Reatini e della Laga, dura da alcuni mesi. Per precauzione avevano fatto chiudere le pericolanti chiese. A furor di popolo erano state riaperte nel giro di 48 ore. Beata igno- ranza! Nel 1703 a L’Aquila, nell’angioina chiesa di S. Domenico, il domenicano di turno aveva con- vocato migliaia di fedeli per implorare la protezione divina. Ne uccise, la protervia del religioso, e non già la conclamata cattiveria di Mr. T, da 600 ad 800. Sarebbe stato sufficiente pregare all’aperto nell’antistante Piazza Angioina. Rese di conseguenza inoffensive le debordanti ondate di Mr. T. Ma tant’è. La scemenza umana non finirà mai di stupire. Anche nelle nostre calanti giornate aquilane.
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