D’Annunzio e la gastronomia abruzzese
Gessopalena – Verrà presentato sabato 11 settembre 2010, (ore 18.00), alla Biblioteca comunale di Gessopalena il libro di Enrico Di Carlo, Gabriele d’Annunzio e la gastronomia abruzzese (Verdone, 2010). Introdurrà il giornalista Stanislao Liberatore. L’incontro rientra nell’ambito della quinta edizione della rassegna “Buon gusto: i formaggi d’Abruzzo”.
Il volume ha recentemente ricevuto dalla Giuria del Premio Nazionale di Comunicazione e Letteratura “Lamerica” (San Giovanni Teatino), presieduta dallo scrittore Giovanni D’Alessandro, una menzione speciale con la seguente motivazione “un bel libro, adatto non solo a coloro che attraverso le preferenze alimentari cercano di ricostruire le varie personalità che si sono succedute nelle diverse epoche storiche, ma anche a quanti desiderano scoprire un d’Annunzio uomo più che poeta, e un “novello” gourmet abruzzese”.
Gabriele d’Annunzio e il formaggio d’Abruzzo
(di Enrico Di Carlo) – «Un vecchio amico di mio padre, un patriarca di Fara de’ Peligni, me ne manda ogni anno. domando al servitore che mi porti la forma onde fu tagliata la fetta a me servita, in un piatto di Castelli, in una maiolica di Francescantonio Grue.
È il cacio nerastro, rugoso, durissimo: quello che può rotolare su la strada maestra a guisa di ruzzola in gioco.
Miro e rimiro. non mangio più. a dieci anni ero anch’io un ruzzolante su la strada di Chieti; e sapevo legarmi al braccio lo spago e avvolgerlo intorno al cacio e prendere la rincorsa per tirare, entrando in furia se la mia gente rideva di me».
Gabriele d’Annunzio si diceva abile nel gioco della ruzzola. Lo ricorda nelle pagine del Libro segreto dove il pensiero dell’Abruzzo torna prepotente: e di questo Abruzzo riconosce addirittura il sapore che «è tutto nel nostro cacio pecorino».
E ancora alle immagini dell’infanzia (ne Il secondo amante di Lucrezia Buti) è legato «un certo cacio vermicoloso, denso di certi vermicciuoli bianchissimi che paion di latte e che stanno così intrecciati e ammatassati l’uno con l’altro da rappresentarmi in viva imagine, a me studioso di storia romana, la pelle malata di Silla in Puteoli. È un caseolus vetus che quanto più invecchia più baca. I ghiotti anco ecclesiastici in terra d’Abruzzi non lo pregiano e gustano se non quando sul vassoio “cammina da sé” come il bimbo svezzato dalla poppa. Di fatti, in tempo di svinatura, stando con mio padre in villa rura paterna bobus non exercens, vidi con tanto orrore camminare il cacio sopra il piatto rustico che strillando me la diedi a gambe giù per la rèdola erbata di podere in podere e, giunto a un frutteto, non ebbi cuore di traversarlo per orrore fantastico di quel vermicolìo appreso anche ai frutti, appreso omai anche a me come a un Ingenuo sillano. Non m’inseguiva l’ambulante cacio?»
Il formaggio riemerge nella memoria del poeta che, nei piatti tipici della sua regione, trova l’occasione per riappropriarsi, attraverso il filo rosso della nostalgia, della sua gente e della sua Terra. Così nella novella Mungià ricorda «i formaggi più tondi che il disco della luna», nel Compagno dagli occhi senza cigli riaffiora il «puzzo di cacio stantio», e in alcune lettere alle amiche approfitta per confessare le sue abitudini alimentari. Ad Antonietta Treves scrisse il 2 marzo 1930: «Non bevo vino dall’infanzia […]. Io mangio da tre a cinque uova, nelle 24 o nelle 30 ore; circa cento grammi di carne; un mio accordo mistico di cacio pecorino e di mascarpón; frutti, specialmente “mondia di arance”; una tazza di caffè forte. Ma per qual ragione l’acidità mi tormenta tuttavia?». Il 16 luglio 1935 a Luisa Baccara, l’ultima “signora” del Vittoriale, donò «entrambe le ghiottornie della Maiella […] il cacio tondo e anche il salamino pepato».
C’è ancora un episodio divertente legato al formaggio, in particolare alla ruzzola. A raccontarlo è Filippo De Titta, maestro di Sant’Eusanio del Sangro, amico d’infanzia del poeta.
Proprio a Sant’Eusanio, una piccola località a sud della provincia di Chieti, Francesco Paolo Michetti, d’Annunzio e Costantino Barbella si erano recati a far visita al cugino di Filippo, Cesare De Titta, latinista insigne. A un tratto, i quattro decisero di cimentarsi in quel passatempo: «Dall’orto del segretario passammo alla Via della fontana per vedere il gioco del cacio, altra specialità del mio borgo. Questo gioco, per chi non lo sa, consiste nello scagliare ruzzoloni per la strada una forma di cacio di due o tre chili; e chi manda più lontano vince. È gioco di forza e di abilità: il giocatore avvolge con una cordicella raccomandata al suo pollice il disco di formaggio che stringe con mano nervosa; piglia la rincorsa e scaglia sulla strada il roteante latticino proiettile. Michetti e Barbella si provarono con soddisfacente risultato al gioco; ma Gabriele guardava le siepi di biancospino fiorito; e tanto era assorto in quella contemplazione, che una volta non vide il formaggio che correva diritto verso le sue gambe e senza dubbio gliele avrebbe fiaccate se alle nostre grida di allarme, con un agile salto di fianco non avesse miracolosamente schivato il colpo».
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