Nell’Iran medievale rischio lapidazione e rottura con il Brasile
L’Aquila- (di Carlo Di Stanislao) La pena di morte comminata con lapidazione è praticamente una tortura: la vittima deve essere sotterrata in modo da lasciar spuntare dal terreno solo la testa. Le pietre che le possono essere lanciate contro devono essere appuntite e taglienti, ma non talmente grandi da poterle infliggere immediatamente la morte. Sulla vicenda eravamo rimasti in silenzio, per molti giorni, sostanzialmente per due motivi. Il primo era legato al fatto che, lapidazione o meno, nessuno in Iran aveva parlato di “sospensione della pena di morte” come in tanti invece avevano detto. Il governo aveva detto solo di aver “sospeso la lapidazione” e non che la donna non sarebbe stata giustiziata, magari per mezzo di impiccagione. Il secondo motivo è legato purtroppo alla profonda conoscenza del regime iraniano, che sappiamo bene di cosa è capace , conoscendone l’estrema crudeltà e sapendo per esperienza che gli Ayatollah non si fanno impietosire da una lettera scritta dai due figli della donna né da campagne internazionali. Anzi, se possibile, ogni volta che viene avviata una campagna internazionale fanno l’esatto contrario di quello che gli viene chiesto. Come ricorda Gino Nebbiolo su Il Giornale Di Sicilia, accade frequentemente, nei paesi mussulmani, che un marito tradito possa ottenere, attraverso la denuncia ad un capo religioso e la sentenza di un giudice, rivalsa sulla moglie, attraverso la più orribile delle morti: la lapidazione. E’accaduto in Iran almeno sei volte negli ultimi due anni, ma l’episodio più recente, che ha come vittima la quarantenne Sakineh Mohammadi Ashtiani, è assolutamente incomprensibile da noi abitanti della parte civile del pianeta, poiché Sakinek il marito non lo ha più, è morto e lei è vedova. Vedova e ciò nonostante adultera, secondo la legge. Il 12 agosto scorso Sakineh Mohammadi Ashtiani, ha confessato e dichiarato ad una tv di stato il suo “delitto”, perpetrato con un cugino del defunto marito. Ma il suo avvocato, Houtan Kian, ha detto che la donna e’ stata costretta a confessare dopo 2 giorni di torturata nel carcere di Tabriz, da dove e’ rinchiusa da 4 anni. Subito dopo tale dichiarazione, l’avvocato contro cui le autorità iraniane avevano emesso un mandato d’arresto, è scomparso, come ha reso noto il sito dell’opposizione Rahesabz, che ha anche dichiaro che sono stati invece aristati sua moglie, Fereshteh Halimi e il fratello di lei, Farhad Halimi. Dietro la vicenda della 43enne iraniana accusata di adulterio e per questo condannata a morte, non si nasconde solo la faccia brutale del regime di Mahmoud Ahmadinejad, ma anche il desiderio del Brasile di Lula di giocare un ruolo sempre più da protagonista sullo scenario internazionale. Solo qualche settimana fa l’asse turco-brasiliano, la diplomazia congiunta di Erdogan e Lula, ha tolto dall’isolamento Ahmadinejad sulla questione nucleare, che con il pressing degli Stati Uniti e dei loro alleati atlantici – Italia compresa – rischiava di prendere una brutta piega (c’era già chi parlava di bombardamenti mirati). Il Brasile e la Turchia, due nuove potenze emergenti, hanno mediato, garantendo l’acquisto delle eccedenze di uranio arricchito a fini medici. Il 16 agosto scorso, il presidente Mahmoud Ahmadinejad si è rivolto in più occasioni negli ultimi giorni al suo omologo brasiliano Inacio Lula da Silva, chiedendogli di non cadere nel “complotto” ordito da alcuni Paesi occidentali per incrinare il rapporto tra Iran e Brasile. Il riferimento è alla disponibilità offerta dall’alleato di concedere l’asilo politico ad Sakineh Mohammadi Ashtiani, respinta dal governo iraniano. Tutto questo in risposta al fatto che Lula, sebbene “contrariato” ha firmato il decreto con cui il Brasile si allinea alle sanzioni decise dall’Onu, facendolo per “rispetto delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza”. Di fronte allo scandalo internazionale di vedere uccisa tramite il barbaro rituale della lapidazione una donna umiliata di fronte alle telecamere e costretta a confessare un delitto mai commesso (l’uccisione del marito), Lula ha cercato ancora una volta di negoziare, lanciando la seconda ancora di salvezza al regime di Ahmadinejad, questa volta su tematiche umanitarie e non nucleari. “Saremmo felici di concedere l’asilo politico alla vedova e accoglierla qui da noi a braccia aperte”, dichiarava il presidente brasiliano all’inizio del mese e il 9 agosto Antonio Luís Espínola Salgado, ambasciatore verde-oro a Teheran, ufficializzava l’offerta di Lula con una lettera indirizzata al ministero degli esteri iraniano. Qui però accade l’impensabile, almeno per la diplomazia brasiliana, forse poco abituata all’integralismo religioso che si respira a Teheran. Le autorità iraniane infatti si irritano, con l’Occidente che fa campagna per salvare la vita di Ashtiani ma soprattutto con l’“alleato” brasiliano perché, parola del portavoce del ministero degli esteri di Ahmadinejad, Ramin Mehman-Parast, “nessun paese indipendente può consentire interferenze nei suoi affari interni dall’estero”. Come osservano in molti, la vicenda sta assumendo un carattere oltre che drammatico, sotto il profilo umano, anche grande rilevanza politica. Infatti, per Teheran le tensioni con il Brasile sono molto pericolose. In primis perché l’alleanza tra i due stati è motivata da una comune ideologia alter mondista. In chiave anti-americana per l’Iran, che ha un bisogno immenso di uscire dall’embargo di Washington e di trovare nuovi partner commerciali, e per il rafforzamento dell’asse Sud-Sud verso Africa e Medio Oriente con scopi soprattutto economici per Lula. Se si lascia però da parte questo aspetto, che è stato alla base anche dell’intervento brasiliano sul nucleare iraniano, emergono le molte differenze, a cominciare dai diritti delle donne. Ora, se i rapporti con il Brasile si incrinano, l’Iran rischia molto di più che perdere un semplice alleato, perché in questi anni è stato proprio Lula a far uscire Ahmadinejad dall’isolamento. In soccorso di Sakineh si è mobilitata quasi intera la comunità internazionale (esclusi gli Stati islamici) che con appelli e petizioni ha messo in difficoltà il governo iraniano già per tanti versi tallonato dall’Onu e dall’Unione europea, costringendolo a sospendere la condanna “per ragioni umanitarie”. Sospendere, non annullare. Amnesty International, che è la più attiva nel denunciare casi come questo, sostiene che Teheran gioca con le parole: Sakinek, sottratta alla lapidazione, potrebbe essere impiccata. Cambierebbe quindi soltanto il modo. Del resto non è cosa nuova che in Iran si commuti generosamente la pena della morte con i sassi e si passi al filo di ferro che taglia la gola (benché i Guardiani della Rivoluzione sembra prediligano le impiccagioni con gru mobili: più rapide, più efficaci e più spettacolari). Ai tempi dello Scià non si lapidava e la pena era il carcere. L’arrivo sulla scena dell’ayatollah Khomeini riportò l’imperio della sharia, la legge divina, e con essa la lapidazione (però soltanto alla donna: l’uomo adultero era ed è punito con la fustigazione, raramente ucciso a sassate). In seguito si ebbe una fase di ripensamento e le lapidazioni furono sospese. Per riprendere su larga scala con l’elezione di Ahmadinejad, fedelissimo dei mullah: oggi, l’Iran in questo esecrabile campo vanta il primato dei paesi musulmani. L’Iran è primatista anche nel taglio della mano ai ladri e ai ladri recidivi mano destra e piede sinistro. Tallonato in questa pratica dal Sudan. Anni fa, quando ero corrispondente della Rai in Medio Oriente, mi accadde di intervistare Al Turabi, ministro della Giustizia sudanese. Il giorno prima su una piazza era stata tagliata la mano ad un borsaiolo. Sapendo che Al Turabi era uomo di cultura, aveva studiato ad Oxford, conosceva tutti i classici inglesi, francesi e qualche italiano, gli chiesi se non provava orrore per una pratica così barbara e medievale. Noi uomini civili dobbiamo protestare, protestare e vigilare, continuare a tener gli occhi aperti, accertarci che i mullah non riescano ad aggirare l’ostacolo e far morire la donna con un altro espediente pur di soddisfare l’esigenza imposta dal codice coranico. Un codice che anche altri paesi islamici come l’Egitto, il Marocco, la Giordania, sinora sostanzialmente retti da regimi laici, per emulazione o per ricatto finiranno per adottare: con tutte le conseguenze morali e politiche che potranno derivare. Un codice che deriva dalla shari‘a, definita come un insieme di norme ideali, parte delle quali hanno anche un riscontro pratico, ma la cui applicazione resta, in definitiva, una pia aspirazione piuttosto che un fine raggiungibile e, secondo alcuni, perfino un vuoto dogma programmatico. Nella vita dei musulmani la shari‘a, e la materia giuridica che da essa deriva, svolge, pertanto, un ruolo fondamentale. La tradizionale definizione di shari‘a che spesso è fornita dai manuali e testi sulle istituzioni del mondo musulmano, vale a dire “Legge divina che la comunità dei credenti deve osservare”, appare insoddisfacente se non si precisano due aspetti. Il primo è relativo all’ambito d’azione della shari‘a: essa, infatti, non trova un’esatta corrispondenza con il moderno concetto di diritto poiché diverse norme enunciate non sono applicate dai credenti. L’oggetto di tali norme è piuttosto riconducibile ad una tendenza propria della tradizione giurisprudenziale musulmana quale si è costituita nel corso dei primi secoli dell’era islamica, in cui spesso si discutono questioni teoriche, senza alcuna relazione con la realtà effettiva. Come scriveva ottant’anni fa l’insigne giurista David Santillana (consulente dei diversi governanti arabofoni del dopoguerra per la stesura dei codici civili nazionali), “diritto e religione, legge e morale sono due aspetti di quella stessa volontà per cui è stata fondata e si regge la comunità musulmana; ogni questione di diritto è anche un caso di coscienza, e la giurisprudenza poggia in ultima analisi sulla teologia”. Secondo uno dei primi grandi studiosi europei di diritto islamico, Joseph Schacht, “la teologia non è mai riuscita a raggiungere nell’Islam un’importanza simile ; soltanto il misticismo è stato abbastanza forte da sfidare il predominio della Legge nell’animo dei musulmani e spesso ne è uscito vittorioso”. Crudelmente vittorioso, aggiungiamo noi.
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