In morte di Francesco Cossiga
(di Carlo Di Stanislao) – Scrive Giovanni Valentini su Repubblica che “di fronte alle continue esternazioni di Cossiga, negli ambienti politici romani cominciano a circolare i dubbi sulla salute mentale del presidente. Ma il primo a porre pubblicamente il problema è il suo vecchio amico Indro Montanelli. “Il punto debole di Cossiga”, scrive il direttore del “Giornale” il 29 ottobre della’89, “è un altro: il suo sistema nervoso, cioè la fucina dei suoi umori. Cossiga appartiene a quella varietà di soggetti che gli psichiatri chiamano, se non sbaglio, ciclotimici, e che alternano fasi di depressione a fasi di euforia”. Soltanto qualche mese più tardi, nel numero del 17 marzo ‘91, “L’ Espresso” pubblicherà un intervento per così dire tecnico del professor Paolo Pancheri, direttore della III cattedra di Clinica psichiatrica all’università La Sapienza di Roma, per spiegare scientificamente in che cosa consiste questa malattia, senza neppure attribuirla tuttavia al presidente della Repubblica”.Combattente irriducibile, ha lottato fino alla fine anche con l’ultimo, formidabile avversario, per cedergli alle 13 e 18 di ieri, ma con l’onore delle armi: una lucidità conservata fino in fondo. Prima di morire, il presidente emerito Francesco Cossiga, ha lasciato una lettera al segretario generale del Senato con tutte le indicazioni dettagliate sulle sue esequie: i funerali, privati e non di Stato, si svolgeranno giovedì a Cheremule, nel Sassarese. Gli amici di famiglia hanno spiegato che il presidente era particolarmente affezionato al piccolo paese sardo perché vi erano nati i genitori. Sul feretro verranno messi il Tricolore e la bandiera della Sardegna. Di lettere ne ha scritte altre quattro alle più alte cariche istituzionali, Presidente della Repubblica, del Senato, della Camera e del Consiglio, per spiegare come mai non ha voluto le istituzioni dietro al suo feretro. Nelle lettere, tre delle quali rese pubbliche, il senatore a vita pone l’accento sul suo attaccamento alle istituzioni democratiche che sempre hanno accompagnato il suo operato durante la lunga carriera politica. “Fu per me un grande onore – è scritto nella missiva inviata al presidente Napolitano – servire immeritatamente e con tanta modestia, ma con animo religioso, con sincera passione civile e con dedizione assoluta, lo Stato italiano e la nostra patria nell’ufficio di presidenza della Repubblica”. L’ultima picconata l’ha lanciata dal letto di morte: “Dio salvi l’Italia”, un ammonimento tetro e pesante come una macigno. Di lui Roberto D’Agostino, che lo aveva come informatore di lusso per il suo sito Dagospia, ha dato una definizione, tanto folgorante, quanto sintetica e veritiera: pugno sardo in guanto DC. Oggi, sul Corriere, in un ricordo-editoriale, Eugenio Scalfari ne traccia un ritratto di uomo e politico complesso, protagonista delle più importanti vicende della 1° e 2° Repubblica, personaggio pirandelliano che sembra plasmata ad immagine dell’Enrico IV, attraversato da una profonda, irriducibile, oscura depressione. Nella sua vita ha toccato, in perenne ascesa, tutti i gradini del potere, sino ad essere Presidente del Senato prima e della Repubblica poi, ma ha anche saputo mollare tutto con olimpica, disinvolta noncuranza. Sulla sua coscienza pesava il non essere riuscito a salvare Moro, il mèntore, il maestro, l’amico. Nel corso della sua vita pubblica è stato eterodosso sempre e sempre fuori dal coro, intelligente e colto, sottile e capace di ogni strategica sorpresa, con alcuni punti fermi, però: i Servizi Segreti, i Carabinieri, l’America, Itraele e la Corona Britannica, per la quale nutriva una sorta di culto. La sua lunga carriera politico-istituzionale, dall’arrivo al ministero dell’interno nel 1976 alle dimissioni da presidente della repubblica nel 1992, è stata contrassegnata da una lunga serie di episodi opachi connessi a complotti, stragi, terrorismo e golpismo e da un ambiguo e mutevole rapporto con le forze politiche di destra e di sinistra. Certamente, come ha ricordato Forlani, è stato più uomo delle istituzioni che del partito e, altrettanto certamente, come ha detto Cirino Pomicino,ha più di ogni altro mostrato di saper valutare uomini e cose, prevedere tempi e mutamenti, giocare d’anticipo e battersi per il rinnovamento. Come dice oggi Il Corriere,divideva da vivo e lo fa anche da morto ed anche il popolo del web si spacca nell’estremo saluto. “Nessuna lacrima per il picconatore”, “un criminale in meno da mantenere” sono alcune delle frasi postate su Facebook; ma, daltro canto, sullo stesso social network in molti si sono affrettati ad aprire una pagina in sua memoria. Alcuni hanno voluto contrapporre a Cossiga la figura di Giorgiana Masi, la studentessa uccisa in una manifestazione radicale, a Roma, il 12 maggio del 1977 e hanno scelto la sua foto in bianco e nero come immagine del profilo. Altri hanno rilanciato – e commentato aspramente – l’intervista al Quotidiano Nazionale dell’ottobre 2008, dove Cossiga consigliava a Maroni l’uso della violenza per combattere l’Onda studentesca. Su Indymedia, alcuni invitano a stappare champagne per festeggiare e in una pagina di soli commenti, tutti rigidamente anonimi, il tono storico-analitico si perde per sfociare in un vociare forse più simile alla curva di uno stadio: “Ole!!!», scrive il primo: «È vissuto pure troppo!!”, mentre su Twitter si fa umorismo macabro, ricordando il caso Moro: “È morto Cossiga, sarà tumulato in una Renault 4 rossa”. Giudizi volgari, superficiali, senza sostanza, né profondità, per un uomo oscuro e complesso, capace di affermazioni ed atti imprevisti e gravissimi, che guardava alla politica come ad un acceleratore e sapeva convivere con i sensi di colpa. Una lunghissima carriera la sua, che parte dal vecchio secolo e si rinnova nel terzo millennio, una storia che inizia a soli vent’anni, quanto si laurea e finisce a capo dei giovani turchi sassaresi, iniziando la sua corsa fino al Quirinale, dove approda nell’85 al primo scrutinio a soli 57 anni: il più giovane dei nostri Presidenti. Giudizi, dicevo, di una ferocia e di una superficialità insopportabili (come spesso insopportabili sono i giovani dei network attuali), che non tengono conto di un cursus honorum con una sfilza di “più”: il più giovane ministro dell’Interno, il più giovane presidente del Senato, il più giovane Capo dello Stato. L’uomo che, dopo il ritrovamento del cadavere in via Caetani di Aldo Moro, lascia il Viminale e al giornalista Paolo Guzzanti confessa, “che se aveva i capelli bianchi e le macchie sulla pelle era proprio per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Aldo Moro”. L’uomo della presidenza del Consiglio dei ministri nel ’79, brevissima, con la messa in stato d’accusa, conclusasi nell’80 per la vicenda del figlio di Donat-Cattin. Ma anche l’uomo dell’elezione nell’83 alla presidenza di Palazzo Madama e nell’85 al Colle, al primo scrutinio, succedendo ad una leggenda: Sandro Pertini. Cinque anni all’impronta della sobrietà con l’ultima fase caratterizzata dal conflitto e dalla polemica politica. Francesco Cossiga si trasforma nel “grande esternatore”, nell’uomo delle “picconate”, caratterizzando così la sua presidenza col fine di “scuotere il sistema”. Si dimetterà a due mesi dalla scadenza naturale del mandato, il 28 aprile del 1992 annunciando le sue decisioni in un discorso televisivo che tenne, non a caso, il 25 aprile. Un discorso diretto concluso così: “Che Iddio protegga la patria, viva l’Italia, viva la Repubblica”. Ma non si estranea dalla militanza politica, tanto da continuare a progettare idee, movimenti politici e a tessere incontri, nella sua casa in via Quirino Visconti, nel centralissimo quartiere di Prati, dove riceve amici e alleati in vestaglia e, tra una battuta e qualche intuizione, tira fuori dal cilindro l’Udr, che, definito dai nemici “poca cosa”, bastò per azzoppare il governo, mettere in moto il ribaltone e spedire Massimo D’Alema alla guida di Palazzo Chigi. I suoi numerosi nemici e detrattori ne hanno evidenziato errori (molti) e lati oscuri (cospirazioni segrete e simpatie massoniche) ed hanno erroneamente affermato che era solo capace di applicare codici da “Bignami” alla politica. In realtà la sua storia, fatta di luci ed ombre, ne fanno un gigante della ingegneria politica più alta e più raffinata. Il suo ultimo libro-intervista, scritto con Andrea Cangini, ha un titolo emblematico: “Fotti il potere” e spiega l’indicibile, strappa la maschera alla realtà con l’ironia e l’arguzia di chi ha cavalcato a testa alta lungo le strade impervie della Prima e della Seconda repubblica. La natura del potere, il ruolo del denaro, l’uso dei servizi segreti, la violenza, la guerra, le massonerie, i rapporti tra stati, la religione, il Vaticano, la verità, la finzione, i complotti, il caso, il lato di tenebra dell’uomo e del politico, di questo parla quel libro e ci racconta l’uomo e ciò che ha rappresentato, riassunto nella frase: “la politica è un’arte in cui cultura e ragione non contano.” Vi scrive: “La grandezza politica dell’uomo non è necessariamente legata alla sua statura morale. Anzi, una certa predisposizione al male sono convinto che aiuti. Un grande leader non può che essere un attento conoscitore della natura umana e deve pertanto avere una certa familiarità con il lato oscuro che ciascun uomo tende solitamente a lasciare avvolto nella tenebra. Conoscere il male per averlo frequentato: è questa la caratteristica dei grandi leader politici così come dei santi”. Su Blitz Nando Della Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto ucciso a Palermo il 3 settembre 1982, parlando del defunto ha dichiarato: ”Non posso dimenticare le tante malevolenze che Francesco Cossiga espresse su mio padre. La pietà per la morte non cancella i ricordi. Di segreti Cossiga ne ha conservati tanti e falsi segreti li ha alimentati con le sue interviste. Mio padre non era l’unico, ricordo Moro, ricordo Berlinguer. Io posso solo giudicarlo in base a quello che diceva, arrendendomi davanti al fatto che aveva una capacità di raccontare sui media vicende incontrollabili”. Chiudiamo qui l’abbozzato ritratto di una geografia complessa che, come ricordato, sembra uscita dalla penna di Pirandello o magari dal Conrad più cupo, quello di “Cuore di tenebra” o magari anche da Dotoevskji, contaminato dal vagabondismo disperato di un John Fante. Ora riposa in pace, con le sue contraddizioni ed i suoi segreti, con i suoi fatti e misfatti, segno di una singolarità del tutto incontestabile.
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