L’opinione – A muso duro
(di Carlo Di Stanislao) – A parte Ezio Mauro, che parla di gesto sensato, i ntelligente ed eroico, sono in molti a chiedersi se Fini non si sia virtualmente suicidato. Era evidente, infatti, che la fusione fra An e Forza Italia avrebbe lasciato a Fini solo un ruolo di co-partnership formale. Semmai il leader di An poteva contare su un progetto di medio periodo e cioè conquistare il nuovo partito dal basso, utilizzando le risorse militanti che aveva portato in dote al Pdl, le uniche in cui potesse vantare un reale vantaggio su Forza Italia. Ma questo progetto presupponeva una vita di partito “normale”, tradizionale, fatta di processi di selezione della classe politica pidiellina dal basso, attraverso celebrazioni di congressi ed elezioni degli organi. Le ricerche condotte sugli elettorati dei due partiti negli anni precedenti alla fusione hanno evidenziato un processo di osmosi cultural – politica accelerata. Le “tradizioni” di An, che si tingevano sempre un po’ troppo di nero quando emergevano (si vedano i festeggiamenti per la vittoria di Gianni Alemanno al comune di Roma), erano andate diluendo in un neoconservatorismo indistinto e inconsapevole e quindi sostanzialmente accodato alla versione berlusconiana. Solo ora Fini ha tracciato il profilo di partito ideologicamente distinto dal mainstream berlusconiano quando ha proposto una destra classicamente moderata-conservatrice sul registro di quelle europee, senza forzature istituzionali e appelli populistici. In An, proprio perché è sempre stato un partito diviso in correnti (così come lo era, e ferocemente, l’antesignano Msi), una prassi del genere era moneta corrente, anche se una certa propensione al “cesarismo” era affiorata fin dal 1994. In Forza Italia, invece, la fluidità delle regole interne e il potere carismatico del fondatore hanno lasciato poco spazio a queste prassi, spesso liquidate come un residuo dei “vecchi” partiti. Ammettendo che il progetto di Fini al momento della fusione in Pdl fosse quello della conquista del basso, esso avrebbe però dovuto superare due ostacoli, organizzativi e politici: sul primo versante, la scarsa predisposizione alla “vita normale” di partito non solo da parte degli ex forzisti ma anche dei suoi, data la centralizzazione e verticalizzazione del potere interno nella stessa An; sul secondo, l’opacità di uno specifico politico-culturale di An. Questo secondo aspetto costituisce tuttora un’area grigia nell’interpretazione della crisi del Pdl. Il presidente della Camera ha tentato un’operazione di rinnovamento interno ad alto rischio perché, ancor più del profilo ideologico, la natura di partito personal-carismatico del Pdl non può mutare senza effetti catastrofici; quelli appunto che si stanno vedendo. Pienone delle grandi occasioni ieri in Transatlantico:. L’occasione è la seduta congiunta di Camera e Senato per l’elezione degli otto membri laici del Consiglio superiore della magistratura; ma in realtà tutti gli occhi sono puntati su cosa sta accadendo al primo piano del palazzo, quello che ospita gli uffici del presidente Gianfranco Fini. Nel primo pomeriggio i finiani decidono di diffondere la lista di coloro che in caso di ultimo diktat da parte di Berlusconi sono pronti a costituire un nuovo gruppo parlamentare alla Camera: Bocchino, Briguglio, Granata, Raisi, Barbareschi, Proietti, Divella, Buonfiglio, Barbaro, Siliquini, Perina, Angela Napoli, Bellotti, Di Biagio, Lo Presti, Scalia, Conte, Della Vedova, Urso e Tremaglia. Si appresterebbero a firmare anche Esti, Bongiorno, Paglia, Lamorte, Rubens, Menia, Angeli, Ronchi, Moffa, Cosenza, Patarino. Ora i numeri sono chiari, nero su bianco. In extremis – fanno capire i finiani più convinti – qualcuno potrebbe ripensarci di fronte a più di un ricatto ma sotto la soglia di 30 deputati disposti a tutto non si scende. Quindi sono cavoli amari per la maggioranza in caso di resa dei conti. Dopo un luingo tentennamento e sorprendo comunque molti, anche fra i falchi del suo partito, Berlusconi ha scelto la linea dura nei confronti della’ex socio Gianfranco Fini. Per tutta la giornata c’è stato un balletto di documenti, con versioni più morbide che non prevedevano di puntare il mirino su Fini e la sua carica di presidente della Camera. Un lavoro di cesello da parte di Letta, Alfano, Frattini, Mario Mauro (capogruppo degli europarlamentari Pdl) e Niccolò Ghedini. Il quale, di solito superfalco in materia di giustizia, ha fatto una lezione di diritto costituzionale al premier. Questi, comunque, non ha sentito ragioni e ha preteso il massimo della durezza. “Cacciatemi Fini”, pare abbia catonamente ripetuto fino alla sfinimento, poiché il suo ex numero due, secondo lui, ora sarà costretto a prendere atto della sfiducia del partito e dimettersi. Cosa che l’inquilino di Montecitorio non pensa proprio di fare. “La presidenza della Camera non è nelle disponibilità del presidente del Consiglio”, è stata la sua risposta. Fini non molla, anzi rilancia e dà il via libera alla costituzione dei gruppi autonomi. Alla Camera ci sarebbero i numeri in abbondanza (34 finora), mentre al Senato i finiani stentano a raggiungere la quota minima di dieci, ma sembra che ci sia il soccorso di Adriana Poli Bortone e di Giovanni Pistorio dell’Mpa. Ecco, sui numeri si discute molto ma è certo che fini si poeterà dietro un drappello molto superiore a quello “per una partita a tressette”, come scrive Belpietro e comunque tale da tenere sotto scacco il governo in ogni votazione, come vaticina Ezio Mauro su Repubblica. “Mi sono tolto un peso dallo stomaco”, pare abbia etto in serata il premier, andando alla cena organizzata dal ministro Rotondi, convinto di recuperare molti dei finiani e fare terra bruciata attorno al presidente della Camera. Ma, per ora, ciò che è certo è che dovrà verificare se ha maggioranza per governare. Ha cominciato la campagna acquisti nel gruppo misto alla Camera e al Senato. E tornerà all’attacco di Casini per convincerlo ad entrare nel governo. Pare intanto che I ‘finiani’ alla Camera si stanno organizzando per formare un nuovo gruppo parlamentare e El Pais, oggi, titola un lungo, doppio articolo sul tema, “Occosu Berlusconi”, parlando di un tramando ormai avviato del Presidente. Il Cavaliere si sente forte e fa la voce grossa ed il muso duro, ma in cuor suo sa a che non c’è tempo per attivare lo “scudo” del lodo Alfano costituzionale e sa, pertanto, di essere esposto nei processi a suo carico. Ogni escamotage in sede dibattimentale potrebbe rivelarsi un rischio che non può permettersi. Perciò servirebbe una nuova “legge ponte”, a meno di non riesumare il processo breve, l’arma di fine mondo che giace alla Camera. La posta è alta e, ora, dopo lo show down con Fini, sa che tutte le sue iniziative sono ancora più a rischio. Dicono alcuni che se Berlusconi ha scelto la linea dura è perché per rovesciare il tavolo del governo e andare dritto alle elezioni anticipate (ipotesi che accarezza da tempo). Ma certo resta incerta e complessa la situazione del Carroccio. I leghisti, a iniziare proprio da Bossi, temono che nuove elezioni paralizzino il lungo iter del federalismo fiscale. Il premier la pensa all’opposto: “La gente non ne può più di questo teatrino. Abbiamo avuto il voto di fiducia sulla manovra economica, ora regoliamo i conti in casa”. Anche di questo, soprattutto ora, il Cavaliere non può non tenerne conto.
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