Perchè mi è piaciuto l’Uruguay
(di Carlo Di Stanislao) – Ha sparpagliato i suoi talenti, molti dei quali proprio tali non erano (o non sono più), spolpato da bibliche carestie. Si è aggrappato al gioco delle dinastie: Montero padre e figlio, la saga dei Forlan, il papà in campo contro l’Olanda nel 1974 (2-0 per Cruijff e company), il rampollo di scena in questo campionato, così bravo da essere nominato “pallone d’oro” del Sudafrica 2010. Il “Golden Ball FIFA” si pensava fosse un discorso tra Sneijder e Villa, ma alla fine ha trionfato Diego Forlan, che ha battuto sul filo di lana gli altri due. La Spagn oltre al titolo di Campione del Mondo, vince anche il premio “Fair Play” con soli 8 cartellini gialli, 5 dei quali nella sola finale di oggi e al grande Iker Casillas, va il premio di miglior portiere, intitolato a Lev Yashin, ma è l’Uruguay che è restata più in profondità, nel cuorte di tutti. La Celeste non raggiungeva la semifinale dal 1970, quando, in Messico, venne steso dal Brasile di Pelè (3- 1) ed ora è arrivata quarta, dopo due splendide partite, seminifale e finalina, a testa alta e “cuore oltre l’ostacolo”, con l’Olanda e la Germania. In Sudafrica ha vinto 3 gare, 2 ne ha pareggiate (compresa quella col Ghana superato ai rigori) e 2 ne ha perse. Ha realizzato 11 gol, incassandone 8. Ma il suo ruolino e’ estremamente positivo, considerata la difficoltà del girone di qualificazione (con Messico, Francia e Sudafrica). Poi la sorte ha dato una mano a Tabarez e i suoi “gladiatori”, infilandolo in un ”percorso” con Corea del sud e Ghana e, infine, con le ultime due gare, perse ma con onore, ha dimostrato che quel pizzico di fortuna l’aveva ben meritato. In fondo l’Uruguay è l’unica vera sorpresa di questo mondiale, che da sedici anni ce ne riserva una: la Bulgaria, la Croazia, la Corea e il Portogallo e, stavolta, l’Uruguay di Tabarez, uno dei migliori (e meno pagati) selezionatori del torneo, per competenza e doti umane. Iniziato il torneo con assetto difensivista, i sudamericani hanno finito per giocare gli ottavi e i quarti con tre punte, Suarez centrale con Forlan e Cavani sugli esterni. Un terzetto formidabile, affiatato, pericolosissimo. Una squadra di eroici lottatori, con un ct che parla poco, perché il mondo va al contrario. Un tempo parlava di più, gli sembrava più importante farlo: nel suo Paese i militari si passavano di mano il comando, incarognendo la Nazione e ogni volta l’orizzonte si allontanava. E mentre Galeano peregrinava per il mondo, dopo il carcere a Montevideo e la proscrizione nell’Argentina di Videla, Tabarez allenava squadre deboli e altre più forti, con lo stesso risultato: vinceva. Ma stavolta non poteva vincere e allora ha realizzato un gioco per far sognare, un gioco aperto e coraggioso, mai rinunciatario, che ricorda gli orizzonti senza confine di Montevideo, in cui, di notte, ogni bambino sogna di essere un campione di calcio e con i sogni colma la distanza fra ciò che desidererebbe e la durezza della vita quotidiana.
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