Città sparita: le macerie di via della Mezzaluna, “lucciole” e voluttà finite in polvere


L’Aquila – (di Gianfranco Colacito) – E’ sparito il bene, e con esso anche quello che un tempo era considerato dai benpensanti (la cui madre è sempre incinta, come quella degli imbecilli) il male. Il luogo torbido della corruzione dei giovani, o, nel migliore dei casi, della loro iniziazione alla libagione più esilarante, quella del sesso. Il cronista ha modo, in compagnia dei vigili del fuoco (grazie, Richard), di aggirarsi con alcuni amici e con dei forestieri che vogliono rendersi conto del disastro (una graziosa americana-veneziana di Princeton) per il centro storico. Il cuore del tessuto dilaniato della città, la zona tra San Pietro, San Silvestro, via Cascina, via Garibaldi e via Roma. Una zona vista a volo d’uccello la mattina del 6 aprile dai vetri impolverati di una Land Rover dei soccorritori. Terribile allora, semplicemente allucinante oggi, tra impalcatura infinite di legno e metallo, tubi Innocenti, fibre, catene, piastre d’acciaio, bulloni, mozziconi di un’esistenza che si stagliano in un cielo non più aquilano: sono comparse nuove prospettive, si sono delineati nel profilo della città martire differenti sagomature, scorci di nulla dove prima erano case e tetti. Chi non ha ricordi, da queste parti, non può capire. Eppure, i visitatori ammutoliscono. Il silenzio mortale che pervade ciò che resta del cuore fitto e stretto di quel centro, accoglie i passi e i mormorii di chi bisbiglia stupore e dolore. Non credete alla tv, andate se potete a vedere con i vostri occhi: ciò che è accaduto a L’Aquila è semplicemente terribile. Inimmaginabile se non sono gli occhi a registrare la realtà. E la mente a capire che una ricostruzione di tanto spicinamento è, per ora, semplicemente inconcepibile. Il cronista, che ama la falegnameria, prova a calcolare quanto è costato – solo in legno – il puntellamento degli edifici. Una tavola di abete per usi hobbistici costa 4-5 euro…
Scendendo per via Cascina, impossibile dimenticare via della Mezzaluna, dove fino all’infausto (per i goliardi di allora) settembre del 1958, c’era il casino: sì, il bordello aquilano. Chi ha trent’anni non ne sa nulla. Chi nel 1958 compiva i sospirati 18 anni, ne sa molto di più. Ricorderà forse anche la scritta “depositare armi e bastoni” che ammoniva, severa, da sopra al banco della matronale metresse-cassiera. E anche Ciclamino, Chiappe d’oro e Bocca di rosa… tutte in una stessa “quindicina”. Il compleanno veniva rigorosamente celebrato con una visita alle ragazze del bordello che, avvertite per tempo, se non c’era molto da fare, preparavano l’accoglienza. Spesso anche affettuosa, perchè oltre alla festa dei sensi e delle impudicizie, spesso lì dentro era anche festa di semplice umanità. E aleggiava meno ipocrisia rispetto all’esterno.
Del casino della Mezzaluna non resta che un mucchio di macerie circondate da macerie. Uno sfacelo totale. E’ sparito il 6 aprile 2009 ogni residuo, ogni traccia, di ciò che la legge Merlin aveva cementato nel 1958. Scomparsa anche l’abitazione di una tizia che aveva preteso di poter aprire un nuovo ingresso del suo immobile oltre l’angolo, su via Cascina: era brutto dover dichiarare di essere residente in via della Mezzaluna.
I ricordi del casino e di quel lembo di città che pare appartenere a mille anni fa (in effetti, erano l’altro millennio e anche l’altro secolo…) erano, ovviamente, già da decenni labili, sfuocati, evanescenti. Appena un’immagine, certamente idealizzata dal tempo, di una professoressa russa di filosofia finita in Italia a fare la vita: donna conturbante, lungo bocchino bianco, una lunga vestaglia nera trasparente su merletti e altre malizie. E qualche altro viso sempre più nebbioso. Ora non si riconosce proprio niente: la furia vendicatrice ha tolto di mezzo presente e passato, devastando anche la Mezzaluna. Ci sarà spazio per chi alluccherà dicendo: “La vendetta sui peccatori”. E gli innocenti dove li mettiamo? Con la Mezzaluna, piuttosto, va in frantumi un pezzo della storia aquilana, e non della paggiore storia: care quelle ragazze, fumoso e sboccacciato quell’ambiente, per niente elegante come altri lupanari sontuosi e kitch a Venezia, a Roma, a Perugia e altrove. Ma vi sgorgava il languoroso profumo del peccato a buon mercato, poveri giovani di allora, povere ragazze ormai finite sotto terra o chi sa dove. “Adua e compagne” sono svanite nel fragore geologico e impietoso e il terremoto ha mandato tutto e tutti in malora. Distruggendo persino i ricordi, per quel poco che potessero valere.
Una lapide ideale in quella strada: gliela dedichiamo noi: “Bambole, è finita. Pensavate forse di vivere in eterno?”.
(Nelle foto Col: Sopra rovine nei pressi dell’ex lupanare aquilano, vestiti ancora appesi in un armadio sfondato – Sotto via della Mezzalunga, come appare oggi)


15 Giugno 2010

Categoria : Storia & Cultura
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