Expo-Shanghai, fine di un sogno
di Carlo Di Stanislao) – Ciò che scriveva un mese fa su L’Espresso Federica Bianchi e cioè che l’Expo 2010 a Shanghai potesse diventare, a fonte di un impegno faraoino, un colassale flop, pieno di “scompensi”; si sta verificando. Cattiva organizzazione, difficoltà per visitare alcuni padiglioni, file chilometriche, biglietti introvabili, servizi inesistenti, sono quanto rilevato dalla stampa internazionale già in questi primi giorni. D’altra parte l’Expo era partita nel peggiore dei modi. In primo luogo perché sebbene si sia definita “verde”, ha richiesto, per un costo complessivo di 40 miliardi di euro, la demolizione delle abitazioni di 18 mila famiglie e la costruzione, su 5 chilometri quadrati di territorio, di 200 padiglioni temporanei che verranno smantellati (con l’eccezione di cinque edifici costruiti dalla Cina), per fare posto a un’ulteriore foresta di cemento armato. Inoltre il terreno su cui si svolge, una volta il sito di una fabbrica d’acciaio, è stato “bonificato” scavando ed esportando quasi un metro di terra contaminata nella poverissima provincia dell’Anhui e poi sostituendolo con altrettanta terra pulita. E se la tedesca Siemens, uno dei partner globali dell’esposizione, ha contribuito al tema verde con tecnologie innovative per oltre 40 progetti all’interno dell’area fieristica e con oltre 50 mila LED per i padiglioni, stona pur sempre che il magnificente padiglione cinese, simbolo stesso dell’esposizione, avrebbe dovuto essere illuminato da pannelli solari, ma vi ha rinunciato a favore delle più economiche lampadine a basso consumo. Inoltre, sempre sulle contraddizioni ambientaliste, la serie di forum e dibattiti sul futuro delle città a cui avrebbero dovuto partecipare le nazioni campioni dell’edilizia verde – Danimarca e Svezia in testa – e che avrebbero dovuto essere uno dei momenti più importanti dell’evento, sono stati annullati appena gli organizzatori si sono resi conto che avrebbero richiesto la partecipazione dei cittadini comuni. E, soprattutto, il tema “Better city, better living” (una città migliore, una vita migliore) suona ipocrita in un Paese dove non è permesso dubitare che il modello di città – o di vita – offerto dal governo sia il migliore possibile. Si aggiunga a tutto ciò che la mitica di Dongtan, la città eco-sostenibile e senza auto che avrebbe dovuto sorgere in tempo per l’esposizione, non è stata neanche iniziata. L’edificio che avrebbe dovuto essere il quartiere generale dei lavori e che era mostrato con orgoglio ai giornalisti di mezzo mondo nell’anno delle Olimpiadi, è stato demolito, memento inutile di quella che ormai assomiglia sempre più a una gigantesca beffa di immagine a cui si è prestata la società di architettura Arup, per ottenere commesse, dicono le malelingue, altrove nel Paese. Infine, il ponte che avrebbe dovuto collegare Shanghai all’isola di Chngming è stato terminato solo perché risulta indispensabile al nuovo parco tematico della Disney, che preso sostituirà il vecchio e falso sogno ecologico cinese. Certamente, come ha scritto Il Sole 124 Ore, grazie alle infrastrutture costruite per collegarla a ogni altro angolo della metropoli, quella che fino a poco tempo fa era una zona degradata di vecchie industrie e di docks fluviali ha ottime probabilità di aiutare Shanghai a trasformarsi in una città policentrica; ma altrettanto certamente a scapito del verde e a favori di uno sviluppo frenetico e senza limite alcuno. Con i quattrini messi in campo, e grazie alla massima disponibilità degli spazi, Shanghai ha sicuramente realizzato l’Esposizione Universale più grandiosa e faranoica della storia, ma anche fra le meno fruibili dagli utenti e le più distruttive per l’eco-sistema.
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