Le Monde: terremoto di natura e di coscienze
L’Aquila – Le Monde, uno dei giornali più autorevoli della Francia e dell’Europa, ha pubblicato il 27 aprile il seguente articolo, che integralmente riproduciamo tradotto in italiano: “E alla fine ha pianto. Giannino di Tommaso è un dignitoso professore di filosofia dell’università de l’Aquila, di cui dirige la facoltà di lettere. Indossa pantaloni di velluto e pullover girocollo. Ha scritto libri molto eruditi su Fichte e la dottrina della scienza. Ma dal 6 aprile 2009 alle 3.32 di notte, non ci sono più momenti normali. Prima, la vita del professor di Tommaso era semplice: i suoi libri, le sue lezioni, la sua facoltà, i suoi 2500 studenti. La vita dopo il terremoto? Di Tommaso non riesce neanche ad immaginarla. La facoltà di lettere non esiste più. Palazzo Camponeschi che la ospitava è crollato per metà, cosi’ come buona parte del centro storico.
Tra i mille modi di affrontare una tragedia e cercare di superarla, ha scelto quello che conosce meglio: la riflessione. Ha quindi scritto un testo intitolato “Terremoto naturale e terremoto di coscienze” : “Ovviamente nel nostro paese nessuna istituzione insegna ad essere disonesti. Partendo da questo presupposto possiamo immaginare che la ricostruzione della nostra città implichi una profonda revisione della nostra scala di valori e che non si metta più a rischio la vita umana per scopi materiali e criminali”.
Giannino di Tommaso ha più o meno ripetuto il suo testo, con voce tremante, mercoledì 15 aprile. Seduto tra i suoi colleghi, ha nascosto il viso fra le mani. Attorno a lui, nella corrente d’aria della hall d’ingresso dell’università degli studi, si sono riuniti tutti i presidi di facoltà, i responsabili dei professori e degli studenti, per dare luogo a un consiglio d’amministrazione straordinario convocato dal rettore, Fernando di Iorio.
Sul grande tavolo attorno al quale sono seduti, ci sono due elmetti gialli da cantiere. Non si sa mai. Di tanto in tanto uno dei partecipanti volge lo sguardo al soffitto, o sul muro stellato attraverso il quale passano luce e freddo. È la prima volta, dopo il terremoto, che si riuniscono tutti. Ci sono anche alcuni studenti. Quando si incontrano si abbracciano. Hanno tutti l’aria tesa, ansiosa. Elisa, studentessa in biotecnologie: “Non so neanche perchè sono venuta. Aspetto. Il futuro? Non lo so. Aspetto per sapere.”
Certamente la vera tragedia sono i 300 morti e i migliaia di senzatetto destinati a rimanere a lungo nel disagio delle abitazioni provvisorie. Per capire il dolore di questi professori privati di laboratorio, di biblioteca, di materiale, e di studenti senza anfiteatro, bisogna immaginare L’Aquila prima del terremoto. Una città in cui vivevano 27168 studenti su 72000 abitanti.
Questa gioventù che il giovedì sera percorreva il Corso, grande arteria che divide la città da est a ovest, era l’unica ricchezza de L’Aquila. L’Abruzzo è povero. Gli abruzzesi sono emigrati a migliaia all’inizio del XX secolo.
Quando in Italia la crescita raggiungeva l’1%, l’Abruzzo si accontentava di un misero 0,4%. Le industrie sono rare. Le aziende d’elettronica, che hanno dato lavoro a 5000 persone negli anni ‘80, sono praticamente scomparse. Il cuore dell’economia abruzzese si è spostato a Pescara, sulle coste più calde e più attraenti dell’Adriatico.
E così la città e la regione hanno investito sulla gioventù. L’università, fondata nel 1596, è diventata un centro moderno, all’altezza, in certi campi, dei piu grandi centri universitari italiani, grazie alle sue nove facoltà, i suoi diciotto dipartimenti tra architettura, medicina, filosofia e matematica applicata; il 5% degli architetti e degli ingegneri italiani hanno studiato a l’Aquila.
Prima del terremoto l’università era la principale azienda della città: 1500 impiegati, tra cui 650 professori. Quasi la metà degli studenti venivano da fuori, dal Molise, dal Lazio, dalla Campania e dalla Puglia. Facevano vivere i negozi, i bar, le pizzerie, davano a questa città, in cui l’inverno inizia il 1° ottobre, un’idea di Tübingen o di Oxford in montagna. Potevano affittare a prezzi modesti appartamenti antichi o stanze presso famiglie residenti in centro. C’era anche una residenza universitaria nuova fiammante con una quarantina di stanze.
Il 6 aprile 8 corpi sono stati sottratti da ciò che ne rimane, ovvero un ammasso di macerie. Ritorniamo nella hall gelata dell’università. Uno dopo l’altro, i trenta partecipanti prendono la parola. Sul tabellone dove sono affissi gli annunci, si possono trovare due biglietti per un concerto di Vasco Rossi a Milano o un appartamento da affittare in via XX settembre, la strada in cui sono state trovate la maggior parte delle vittime…..C’è anche un cartello: “L’Aquila, il futuro a portata di mano”.
Ferdinando di Iorio trascura talvolta i professori per rilasciare un’intervista a qualche troupe televisiva che bazzica nei paraggi. A causa del terremoto ha perso anche la sua casa. Imbacuccato nel suo parka rosso, l’anziano chirurgo continua a ripetere senza sosta di avere “fiducia” nel futuro e la certezza di assistere alla rinascita dell’università: “Ricostruire la città senza l’università non avrebbe alcun senso”.
Purtroppo i problemi dell’università de l’Aquila non sono né sulle prime pagine dei giornali né tra i principali titoli dei telegiornali; i quali preferiscono la riapertura di una classe in una tenda divenuta scuola. In Italia, paese in cui il sospetto di “accordi” nell’attribuzione dei posti di lavoro e dei diplomi macchia l’insegnamento superiore, la sorte di questi “privilegiati” non preoccupa minimamente. In visita, il ministro dell’istruzione ha annunciato che l’anno accademico non sarà perso per gli studenti, ma che gli esami avranno luogo in ogni caso. Ma per il resto non ha detto nulla. Il ministro dell’economia, Giulio Tremonti, ha promesso che terrà dei corsi alla riapertura dopo le vacanze estive, ma non ha parlato di soldi.
Nel dubbio ognuno immagina il futuro. Per alcuni è a portata di mano. Questione di poche settimane. Bisogna organizzare gli esami, recensire tutte le strutture rimaste in piedi, condividerle, prolungare il soggiorno di coloro che si trovano all’estero, creare contatti con le università di tutto il mondo. In poche parole dedicarsi alle azioni più urgenti.
E funziona…Nonostante il disordine, gli edifici cadenti, una trentina di studenti di medicina sono riusciti a discutere la tesi di dottorato, lunedì 20 aprile. In questa occasione indossavano una maglietta con lo stemma dell’università e con su scritto “Io non crollo” [in italiano nell'articolo orginale, N.d.T.].
Per altri il futuro è un’utopia. Come se il terremoto avesse lasciato una pagina bianca per raccogliere tutti i sogni. Ci sono quelli che vedrebbero erigersi a 900 m d’altezza “una sorta di scuola di studi superiori in scienze sociali integrata all’università”.
Un insegnamento d’eccellenza che non avrebbe precedenti in Italia. “Bisogna essere sempre più esigenti, afferma Marco Valenti, professore associato di epidemiologia. Le utopie aiutano a ricominciare “.
“Bisogna fare il possibile affinchè gli studenti rimangano a l’Aquila”, spiega Pier Ugo Foscolo, professore alla facoltà di ingegneria. “Qui hanno i loro contatti, i loro amici. E senza l’università la città morirà definitivamente”.
Un altro:”Nessuna legge, nessun ministro può obbligare dei ragazzi a rischiare la loro vita per studiare”. Pierangelo Marcati, professore di matematica, si altera: “Il ministro ci ha promesso la ricostruzione di un edificio con 16 stanze. Ma ce ne servono 5000. E di tutti questi miliardi promessi all’Abruzzo, quanto andrà all’università?”
Il loro timore è vedere i 27 168 iscritti all’anno accademico 2008-2009 sciogliersi come neve al sole alla ripresa delle lezioni. Alla paura legittima degli studenti di rivivere un dramma si aggiunge l’assenza di alloggi. Finora quasi tutti hanno comunicato ai loro professori, via internet, l’intenzione di continuare a studiare qui.
Fabrizio Rega, studente di biotecnologie, si ricorda le serate a “l’Aquila vecchia” [in italiano nell'articolo orginale, N.d.T.]. Lo student’, il Boss, il Mago, tutti bar in cui non trovavi mai un tavolo libero, soprattutto il giovedì, l’ultima sera. C’erano infatti sia gli studenti della città e dei suoi dintorni, che quelli che tornavano a casa per il fine settimana.
“L’affetto per questa città è immenso”, dice. “Voglio restare”. Fuori, una giovane studentessa in medicina, uscita per godersi il primo raggio di sole, è più prudente: “Sì, ho cominciato qui ma non sono sicura di poter rimanere. L’ospedale in cui lavoravo è distrutto. È come studiare Belle arti a Parigi senza il Louvre.”
Bisognerà riaggiornarsi. Ferdinando di Iorio lo sapeva fin dall’inizio della riunione. Non ne sarebbe venuto fuori nulla di concreto. Il dramma è ancora troppo recente, i morti troppo presenti nella memoria. Ma avevamo proprio bisogno, ritiene di Iorio, della condivisione di piccole e grandi idee, di rancori e tristezze, se non altro per fare in modo che si arrivi, in futuro, ad un dibattito più costruttivo.
Tutto questo per accorciare il lutto? Esorcizzare il dolore che trapela da questi muri di nudo cemento? Ha deciso di conferire una laurea ad honorem a tutti gli studenti morti poche ore prima dell’alba del 6 aprile, una sessantina di persone.
Tutti i presenti si sono alzati per applaudire. Lui, loro stessi che sopravvivono, e coloro che non sapranno mai se la vita , la gioventù, torneranno un giorno a l’Aquila”.
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