La crescita crudele


Tra MAP e New town – (di Gianfranco Colacito) – Tanti anni fa un sindaco storico dell’Aquila, Tullio De Rubeis, in un’intervista ci disse: “Non sogno una città grande o che somigli ad una città grande, ma una piccola città, vivibile e accogliente: L’Aquila com’è sempre sta nella storia”. Un paensiero saggio, mentre le periferie aquilane, tra le più orripilanti mai viste in Italia, debordavano e dilagavano verso Pettino e verso Sassa. La città del cemento caotico cominciava a scendere in pianura, senza però crescere davvero, senza un piano, un progetto: l’unico piano regolatore che c’era era del 1975.
Oggi viviamo nella crescita crudele, la più inattesa, aggressiva, scombinata che potesse capitarci. Concepita in pochi mesi dopo l’aprile finale del 2009, quando in pochi secondi si chiuse un libro, la vita aquilana, che non è stato riaperto e, forse, non lo sarà per decenni. La storia insegna che altre volte il libro è stato riaperto e c’è stata una ricostruzione. Dobbiamo darle fiducia, dobbiamo crederle. Ma non è facile.
C’è un libro di Errico Centofanti sul terremoto del 1703, intitolato “La festa crudele”. Oggi c’è la crescita crudele. Chi è tornato a vivere a L’Aquila sa sulla sua pelle che tra villaggi di MAP, baraccopoli, casupole, e soprattutto 19 new towns che attorniano l’ex centro storico, le distanze fisiche sono oggi sterminate: decine di chilometri. Lungo queste strade interrotte da rotatorie non sempre necessarie, ma sicuramente convenienti per chi le fa e le ha fatte (senza completarne neppure un terzo) occorre muoversi regalando ore della propria giornata al traffico, agli incolonnamenti, alle attese, al caos che imprime alla vita aquilana un marchio indelebile. La città del caos, della paralisi, della confusione (non si sa mai dove trovare uffici e destinazioni quotidiane), è allargata e allungata a dismisura, ha allagato la sua conca di cemento, legno, cartongesso, plastica, asfalto raffazzonato e malmesso, gru, cantieri, camion, betoniere, scavatrici, ruspe e una quantità di venditori di materiali edilizi e alimentari, giunti come cavallette. Il commercio è periferico, ma lo sono anche le attività professionali. Non devi stupirti se trovi lo studio di un avvocato in un conteiner in piena campagna.
Le aree destinate al trattenimento giovanile, essenziale in una comunità che vorrebbe riconnettersi al reale, sono disperse, squallide come solo a L’Aquila può accadere (cura e arredo sono concetti ignoti, come è ignoto il semplice servizio di riaccendere delle luci spente), caotiche e insicure: risse, aggressioni, disordini sono eventi abituali. Da qualche tempo anche di peggio, purtroppo. Che tipo di crescita è dunque quella che la città ha subito?
Crudele, appunto. Non voluta, non concertata nè progettata. Case a migliaia buttate lì nei campi (c’era l’urgenza di dare tetti), baracche spesso indecenti, abusivismo esagerato, soste selvagge, ambienti già malsani e urbanizzazione mai finita: mancano aiole, panchine, giardini, parcheggi, segnali, toponomastica, spesso collegamenti, ma soprattutto negozi, edicole, bar, luoghi di ritrovo. Lo stravolgimento, dopo 13 mesi, non si attenua e la città somiglia ad una ruota di carro: un centro invivibile dov’è il mozzo, e una serie di direttrici convergenti verso il mozzo, da ogni direzione, tutte lunghe e distanti dal centro. Una città ciambella, sempre di più: una fascia di insediamenti alienanti e stravolgenti attorno ad un nucleo buio e vuoto. Non c’è nulla in pentola per alleviare questa desolazione urbana che, con il tempo, si accentuerà. Solo sproloqui di sapientoni, impegni da congresso (cioè zero), parole, opinioni, suggerimenti quando va bene. Ma come non esiste un vero piano di ricostruzione, non esiste neppure un vero, sapiente, coerente progetto di ricomposizione (per quanto possibile, nessuno fa miracoli, s’intende) sociale, psicologica e anche fisica dei brandelli di quella che fu una bella città: l’hanno scoperta in tanti dopo che è finita spicinata in pietre, calce polverosa, ferro, pezzi di vite dilaniate, spezzoni di passato infilzati nei cieli immemori delle foto scattate tra le rovine. Anche molti aquilani che oggi guardano attoniti, increduli, lo skyline massacrato dell’orgogliosa, sardonica città di Federico. Anche questa definizione era sbagliata (è la città di Corradino di Svevia, caso mai…), ma nessuno si curava di modificarla. Una cosa preoccupa: che possano chiamarla, nelle new town, la città di Silvio…
(Nelle foto Col: immagine rubata da una finestra, l’interno di un MAP con il letto in una cameretta minuscola – Il villaggio di MAP di Onna, carino e ospitale. Lo hanno però donato e fatto i tedeschi. Gli altri sono molto meno accoglienti e ridenti)


09 Maggio 2010

Categoria : Cronaca
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