Le virtù, il 1 maggio si cucinano…
Teramo – (di G.Col.) – Definire zuppa o minestrone il celebre piatto teramano del 1 maggio è riduttivo. Le virtù sono molto di più, perché portano la gastronomia nel contesto della storia. E a Teramo ne sono orgogliosi. Tant’è vero che in molti locali il piatto si cucina prima e dopo il 1 maggio, il giorno canonico. E poi, si sa, la sola vera cucina abruzzese è quella teramana. Un primato non contestato, in un Abruzzo che per campanilismo è capace di negare anche l’evidenza.
Le virtù sono, tanto per capirci, una zuppa in cui si trovano legumi secchi e freschi (fagioli, ceci, lenticchie, piselli e fave); verdure fresche come carote, zucchine, patate, bietole, indivia, scarola, lattuga, cavolo, cavolfiore, rape, borrace, cicoria, spinaci, finocchi, “misericordia”, aglio, cipolla, “annit” — sorta di finocchio selvatico di odore acutissimo ed indispensabile per la preparazione di questo piatto —, maggiorana, salvia, “pipirella” — sorta di timo, rinvenibile nel Teramano —, sedano, prezzemolo, carciofi. Secondo i vari cuochi, ci vogliono anche uova, prosciutto crudo, olio, burro, cotenne, carne di manzo, noce moscata, pepe, chiodi di garofano, lardo, parmigiano, farina, pasta di grano duro di varie qualità e, volendo, tortellini e agnolotti. Sulla costa qualcuno ha provato a preparare anche virtù con il pesce al posto delle carni. Risultato, non molto apprezzato.
Secondo i sacri testi che si trovano i su Internet, si procede così: “Tritate finemente tutte le verdure. In una pentola capiente mettere insieme olio, burro, prosciutto crudo tagliato a dadini e lardo battuto. Unirvi patate, carote, zucchine tagliate a dadini, le polpettine, aglio e cipolla tritati finemente, chiodi di garofano, noce moscata, un cucchiaino di pepe, l’”annit”, le fave, i piselli sgusciati, un carciofo tagliuzzato, maggiorana, “pipirella”, prezzemolo e una costola di sedano, facendo insaporire il tutto, sinché il condimento non venga assorbito. Aggiungere le verdure ed attendere per circa 15 minuti. Diluire il tutto col pomodoro e far sobbollire per 5-10 minuti.Unire i legumi con tutta l’acqua di cottura (ma lasciarne un po’ da parte da passare al setaccio e da unire, poi, al tutto). Far cuocere per 10 minuti circa”.
Naturalmente, le virtù che si assaporano comunemente nei ristoranti non saranno tutte così, in qualcuna mancherà qualcosa, e qualche cuoco seguirà il suo metodo. Poco importa. Il risultato piace e la gente inzuppa il cucchiaio.
Da dove viene un simile piatto? Gli storici della gastronomia sostengono che l’origine è romana. Nelle “Facezie”, lo scrittore trecentesco Bracciolini propende per questa tesi. E’ il più citato e autorevole. Fatto è che a Roma, in effetti, ancora si mangia qualcosa del genere sotto il nome di virtù, e un motivo ci sarà.
In Abruzzo, la “vulgata” dice che l’origine remota risale alla dea Maia, sì, quella che dà il nome anche alla Maiella, che sarebbe stata la sede della divinità, una versione nostrana del mito della “dea madre” presente in tante civiltà.
Storici più pragmatici spiegano che il piatto (che poi la tradizione ha collocato nel giorno del 1 maggio) deriva dai rimasugli nel fondo delle madie casalinghe, dopo l’inverno: avanzi di tutto ciò che si era consumato, più le primizie vegetali spuntate nell’orto, qualche pezzetto di carne, soprattutto maiale, e pasta di vari tipi. Un guazzabuglio profumato e vitaminoso per festeggiare la primavera. Una festa della gastronomia povera. Comunque stiano le cose, una gloria culinaria teramana che è doveroso celebrare. Se trovate ancora posto, prenotate in un ristorante che si prepara a cucinare le virtù, per le quali ci vuole tempo: come sempre nella buona cucina. Altrimenti è “fast food”, una bestemmia degli anni in cui siamo costretti a vivere.
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