Genocìdi dimenticati
(di Carlo Di Stanislao) – Ieri, gli armeni di tutto il mondo, hanno commemorato il 95° anniversario dell’eccidio del loro popolo, un genocidio in realtà in due fasi collegate fra loro: la prima relativa alla campagna contro gli armeni condotta dal sultano ottomano Abdul-Hamid II negli anni 1894-1896; la seconda con la deportazione ed eliminazione di armeni (si dice 500.000) negli anni 1915-1916. L’evento più eclatante l’impiccagione di numerosi armeni ad Aleppo nella notte fra il 23 e 24 aprile del 1915. Il governo turco continua ancora oggi a rifiutare di riconoscere il genocidio ai danni degli armeni [1ed è questa una delle cause di tensione tra Unione Europea e Turchia. Il genocidio degli armeni è stato giustamente definito il “prototipo dei genocidi del ventesimo secolo”, l’esempio perfetto della distruzione il più possibile completa di un gruppo etnico da parte di uno Stato, il tragico capitolo primo di un secolo che si è chiuso con altri capitoli sanguinari, e altre pulizie etniche. L’importanza di questo genocidio, quindi, si impone non solo per un motivo cronologico. La distruzione “scientifica” del popolo armeno da parte dello stato turco si rivela un tragico paradigma sia per le tecniche impiegate che per l’elemento di ispirazione nei confronti di altri propositi genocidari. Gli armeni giunsero intorno al VII secolo a.C. in quel territorio situato a sud del Caucaso e del mar Nero, a est dell’altopiano anatolico, a ovest del mar Caspio, in una zona montuosa, fertile e strategica, dal momento che attraverso essa passa una delle fondamentali vie per l’Oriente. Da sempre, quindi, l’Armenia è una regione che fa gola a tutti i popoli dominatori adiacenti, dai persiani ai greci, dai romani agli arabi. L’unico modo per sopravvivere è quello, tradizionale, di giocarsi periodicamente le alleanze, sfruttando le rivalità tra Bisanzio e la Persia. La sopravvivenza, però, passa anche per una propria precisa identificazione: gli armeni diventano così, tra il IV e il VI secolo d.C., cristiani, ma appartenenti ad una Chiesa nazionale, che li pone in contrasto con quella occidentale. Periodiche invasioni turche spinsero gli armeni verso la Cilicia dove, tra le montagne dell’Amano e del Tauro, prese forma la Nuova Armenia, che resisterà fino alle porte del XVI secolo. Intanto, si affaccia sulla scena l’impero Ottomano, che occupa la parte occidentale dell’Armenia, mentre quella orientale finisce alla Persia. Da questo momento gli armeni diventano cittadini ottomani, di un impero plurinazionale che, benché di maggioranza musulmana, si dimostra tollerante verso le minoranze cristiane, rispettandone lingua e cultura. È, tutto questo, parte di un “contratto”, che prevede comunque, per i non musulmani, una condizione di inferiorità nel campo dei diritti civili: quella del Sultano è una teocrazia, dove l’Umma (comunità credente) domina i dhimmis (i “protetti”). Questi ultimi sono cristiani ed ebrei, che non possiedono terre proprie, pagano più imposte e, di fronte alla sharia – combinazione di legge civile e religiosa basata sul Corano – si rivelano cittadini di classe inferiore. In un processo, ad esempio, una testimonianza di un cristiano contro un musulmano non ha valore. Gli armeni, quindi, non hanno il minimo accesso alla vita politica dell’Impero. Una particolare combinazione di pressioni esterne ed interne all’Impero Ottomana, si rivelerà fatale per gli armeni. “Nessuno stato -scrive inconfutabilmente Claude Mutafian – è più crudele di un grande impero in agonia”. – Quasi a voler saggiare la capacità di reazione delle Potenze europee, il sultano Abdul Hamid pianifica, nel 1894, il primo massacro di massa contro gli armeni. Il piano criminale scatta nella regione di Sassun, a ovest del lago Van. Una campagna di disinformazione, che accusava gli armeni di tradimento e complottismo, servì ad accendere gli animi della maggioranza musulmana. In nemmeno due anni i primi pogrom anti-armeni causano la morte di più di 200.000 persone, la conversione forzata all’Islam di decine di migliaia di persone, e un esodo di massa fuori dai confini dell’Impero. L’eccidio viene perpetrato davanti agli osservatori europei, che non mancano di informare (in documenti perfettamente reperibili) i propri governi, i quali decidono comunque di non intervenire. È il segnale che il sultanato attende: la scintilla era scoccata, e negli anni seguenti avrebbe incendiato tutta l’Armenia. Poi, dopo alcuni anni, la Grande Guerra offre al governo turco l’opportunità di “chiudere i conti” con gli armeni. a Turchia entra in guerra a fianco delle Potenze centrali. Da parte loro, gli armeni si dividono in più fazioni: chi è per la neutralità , chi si propone di combattere per la Turchia “da cittadino ottomano” e chi si schiera con i Russi. Sul confine fra Turchia e Russia, infatti, avvengono gli scontri più duri, a tutto favore di quest’ultima. Nella loro convincono che buona parte della responsabilità della sconfitta risiede nei “traditori” armeni. In realtà , nelle file russe ci sono anche armeni, ma sono quelli da sempre appartenenti alla Russia, non quelli “ottomani”. Il terreno è fertile per far fiorire il genocidio. Tra il dicembre 1914 e il febbraio 1915 il Comitato centrale del partito Unione e Progresso, guidato da due medici – i dottori Nazim e Behaddine Chakir – pianifica la totale soppressione degli armeni come popolo. Viene creata la famigerata Organizzazione Speciale, una struttura paramilitare dipendente dal ministero della Guerra, ufficialmente incaricata di operazioni spionistiche oltre confine, ma segretamente incaricata di sterminare gli armeni (ai messaggi ufficiali di non toccare la popolazione armena durante le operazioni militari seguivano contrordini in codice di segno opposto). Oltre a ciò, detenuti comuni vennero scarcerati e addestrati per far parte di squadre irregolari (i tchété), adibiti ai lavori più sporchi. Il piano scatta tra il gennaio e l’aprile 1915: i soldati armeni, che avevano combattuto per il governo turco, vengono disarmati, raggruppati con la scusa di eseguire lavori specifici di ricostruzione ed eliminati lontano dai centri abitati. Alla fine di aprile, con il pretesto di una rivolta armena scoppiata a Van, 2345 notabili armeni di Costantinopoli vengono arrestati, nei mesi successivi tutta l’élite intellettuale (scrittori, giornalisti, poeti come Daniel Varujan, parlamentari come Krikor Zohrab) vengono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo il percorso. Tra il mese di maggio e il mese di luglio dello stesso anno gli armeni di 7 provincie orientali – Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput – vengono uccisi o deportati. Gli uomini in salute vengono uccisi sul posto, donne, bambini e vecchi vengono deportati, obbligati a sostenere lunghe marce verso il deserto, all’unico scopo di farli morire di fatica. I convogli vengono fatti attaccare da nomadi curdi al servizio del governo. La mancanza di un’adeguata esposizione del genocidio armeno agli occhi dell’opinione pubblica la si deve a due fondamentali fattori: l’operazione di sterminio è stata condotta in pieno conflitto mondiale (1915), in una situazione in cui operazioni militari e perdite di vite umane potevano essere meglio mascherate e l’atteggiamento calcolatore delle Potenze occidentali, che hanno sempre riconosciuto alla Turchia un importante ruolo di baluardo e contenimento, prima verso l’integralismo islamico, poi verso l’imperialismo sovietico. Dal 1973 al 1987 il riconoscimento del genocidio armeno subisce un percorso incerto, soprattutto a causa del governo turco, il quale fa pesare sulla bilancia il proprio fondamentale ruolo atlantico nella Guerra Fredda. Il 18 giugno 1987 il Parlamento europeo ammonisce che il rifiuto di riconoscere il genocidio armeno costituisce un ostacolo all’ingresso della Turchia nella Comunità Europea. Il governo francese è quello che più sostiene, in questo gli armeni. Una recente leggedi quel Paese, punisce con il carcere la negazione del genocidio armeno. Per converso, già da tempo la magistratura turca punisce con l’arresto e la reclusione fino a tre anni il nominare in pubblico l’esistenza del genocidio degli armeni in quanto gesto anti-patriottico. In tale denuncia, comunque ritirata, è incappato lo scrittore turco Orhan Pamuk, a seguito di un’intervista ad un giornale svizzero in cui accennava al fenomeno. Il governo turco attuale sta favorendo l’apertura al riconoscimento di questa pagina di storia, ma i socialdemocratici del Partito Repubblicano e i nazionalisti si oppongono tenacemente. Comunque,il governo turco continua a contrastare il riconoscimento formale del genocidio da parte i altri paesi, ed a mettere in discussione che un genocidio sia mai accaduto.Lo storico turco Taner Akçam, il primo a parlare apertamente di genocidio, venne arrestato nel 1976 e condannato a dieci anni di reclusione per i suoi scritti. L’anno successivo riescì a fuggire e a rifugiarsi in Germania ed oggi lavora negli Stati Uniti, presso lo Strassler Family Center for Holocaust and Genocide Studies della Clark University, dopo essere stato Visiting Associate Professor of History alla University of Minnesota. Il negazionismo del genocidio armeno indica un atteggiamento storico-politico che, utilizzando a fini ideologici-politici modalità di negazione di fenomeni storici accertati, nega contro ogni evidenza il fatto storico del genocidio del popolo armeno. Il fatto è ritenuto storicamente accertato. Interessi ideologici-politici-storici tendono a renderne difficile la constatazione da parte di quanti in qualche modo si sentano vicini agli autori dell’olocausto degli armeni, o abbiano difficoltà culturali-storiche ad accettarlo, o per interessi geo-politici considerano dannoso ammetterl
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