PER UN NATALE DI FRATERNITÀ: “FARE SPAZIO” A GESÙ NEGLI ALTRI
Omelia tenuta dal Card. Petrocchi, vescovo dell’Aquila, durante la Messa della Notte di Natale
Chiesa di S. Francesco d’Assisi a Pettino – 24 dicembre 2020
L’evangelista Luca racconta come Giuseppe e Maria, che era incinta, giunsero a Betlemme, per adempiere un decreto di Cesare Augusto che aveva ordinato un censimento in tutto l’impero (cfr. Lc 2, 1-9). C’è un passaggio, in questa narrazione, che fa stringere il cuore: « Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.» (Lc 2, 6-7).
Gli abitanti di Betlemme non erano cattivi: si trattava, in genere, di brava gente, anche religiosa. In ogni caso non erano tanto diversi da noi. Avevano, forse, “ragioni” ritenute da loro “buone” per dire di “no” a quei due sconosciuti che bussavano alla loro porta. Possiamo immaginare alcune motivazioni: la casa è già piena, perché sono venuti parenti o amici da lontano; si tratta, poi, di estranei, non si sa mai con chi si ha a che fare. Sarà, probabilmente, scattata anche la clausola del rimando: ci pensino quelli della “porta accanto”… Non sappiamo la trafila umiliante a cui si sono sottoposti Maria e Giuseppe: alla fine qualcuno – forse impietosito da quella donna incinta e messo alle strette dalle insistenze di Giuseppe – avrà indicato una soluzione “rimediata”: un ricovero per animali. Almeno lì potevano trovare un riparo provvisorio, ma sicuro.
Ma, proprio perché si chiudono all’accoglienza del prossimo, gli abitanti di Betlemme non ricevono l’annuncio salvifico e lieto degli angeli. Chi sbarra la porta al fratello si rende irraggiungibile ai doni di Dio. La benedizione del Signore, infatti, può accoglierla solo chi dona con generosità. La scelta del “no”, nei confronti di Maria e Giuseppe, si rivela davvero una decisione sbagliata e “perdente”.
L’esperienza ci insegna che di fronte a situazioni di “emergenza” occorre attivare un “amore più grande” e un pensiero creativo, che va “oltre” le ovvietà quotidiane. Se non si mobilita un “sovrappiù” di dedizione non si riesce a dare la risposta che Dio si attende: la più giusta, anche sul piano umano. L’amore vero genera la speranza, e «la speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 55).
Continua il racconto evangelico: «C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge» (Lc 2, 8).
Il testo introduce un apparente “paradosso”: sulla scena compaiono i pastori, che vivevano una condizione di precarietà e disagio. Passavano la notte esposti al freddo e alle intemperie, in un ambiente inospitale e pericoloso. Non avevano le pareti protettive della casa, che talvolta possono trasformarsi in barriere escludenti nei confronti degli altri: è un fattore che può far scattare la linea divisoria tra “noi” e “loro”.
I pastori rappresentavano una categoria sociale svantaggiata, eppure diventano i protagonisti dell’evento: proprio loro, che stavano in difficoltà, sono visitati dall’ “angelo”, che disse: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2, 10-11).
Questa frase suonava chiara e forte a persone che appartenevano al Popolo di Israele: significava che il “messia” era arrivato. Le promesse che Dio aveva fatto, attraverso i profeti, nel corso dei secoli, si adempivano. Il tempo era ormai giunto al suo “centro” e al suo compimento.
Alla luce della rivelazione cristiana possiamo dare un significato pieno al termine “Salvatore”: è Colui che ci libera dal male, causato dal peccato, cioè dalla negatività che ci abita e percorre la nostra storia. Male da cui non siamo in grado di emanciparci da soli. Nel Salvatore sovrabbonda la grazia misericordiosa di Dio, perché, oltre a guarirci da una patologia mortale, che si radica nell’anima, ci fa partecipi di una condizione straordinaria: ci rende, per grazia, figli di Dio. Anche questo “privilegio” è totalmente al-di-là delle nostre capacità.
Purtroppo oggi molti restano indifferenti di fronte a questo annuncio: infatti, avendo perso il senso del peccato, non avvertono la necessità di essere salvati. Pensano di farcela da soli: di essere in grado di auto-affrancarsi dal male e diventare artefici della propria felicità.
Anche noi, come credenti, abbiamo bisogno di crescere nella conversione, “purificando” progressivamente i nostri modi di pensare e di agire, per intuire l’infinita grandezza del dono che ci è stato fatto. Solo così siamo abilitati a comprendere, nella verità, “chi siamo” e di quali “soccorsi” abbiamo bisogno per condurre una vita degna di “creature nuove” (cfr. 2Cor 5,17).
Per apprezzare sempre di più la grazia del Natale dobbiamo porci alcune domande di fondo: abbiamo ben individuato i difetti che ci portiamo addosso? Le abitudini sbagliate che si sono incrostate nei nostri atteggiamenti? Gli egoismi pervasivi, i modi di pensare distorti, le emotività dissonanti che scorrono dentro di noi? Sono questi fattori “ostili” i veri “nemici”, che operano dentro di noi e ci guastano la vita: sono i primi “autori” del nostro malessere e dei disturbi relazionali che ci fanno patire. Molte “turbolenze” interiori non dipendono dagli eventi esterni, ma da come li affrontiamo e li gestiamo. Questi “agenti avversi”, che ci causano i danni peggiori, possiamo cercare di combatterli, ma da soli non riusciamo a vincerli.
L’annuncio del Natale, allora vibra forte nel nostro cuore: ci è dato di incontrare, nella Chiesa – icona di Maria – Colui che ci consente di vincere la battaglia più dura, quella contro il male, e ci permette di vivere da figli di Dio, che hanno ricevuto dal Padre celeste una vita che non muore.
Il testo di Luca ci pone di fronte ad un altro apparente “paradosso”, che racchiude un immenso tesoro di sapienza divina. Gli angeli annunciano un “segno” (cfr. Lc 2,12) che consentirà di identificare il “luogo” dove è nato il Salvatore. Possiamo supporre che i pastori abbiano immaginato di trovare il Messia in un palazzo regale. Infatti, da tempo, nel Popolo di Israele si era diffusa la convinzione che il “Cristo” (cioè “l’Unto”, dunque, il Consacrato dal Signore), fosse destinato a diventare un sovrano e giungesse in un contesto di gloria sociale e di grandezza politica. Queste interpretazioni erano sostenute anche da una lettura impropria di alcuni testi biblici, tra cui anche quello di Isaia, che ci è stato proclamato, nel quale si legge: «grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine, sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre» (Is 9,6).
Quindi i pastori avranno pensato che l’angelo li indirizzasse a onorare il bambino in una dimora sontuosa, degna di un principe. Invece, a sorpresa, il segno accreditato appare in versione opposta e stupefacente: «troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,12). Questa “strategia redentiva” di Dio – del tutto imprevista – sbalordisce e chiede anche una obbedienza confidente.
La “buona notizia”, che porta il Natale, sconvolge anche il nostro ordinario “sistema di attese”: ci rivela che il Signore si rende presente proprio nelle situazioni che riteniamo “minori” o di stampo avverso; cioè, ci viene incontro nella “ferialità” dell’esistenza, come anche nelle difficoltà, nelle contrarietà, nei momenti di abbattimento. Proprio lì ci fissa l’“appuntamento”: a noi rispondere a questo suo amore e “recarci”, come hanno fatto i pastori, dove Lui sta.
E Gesù Lo troviamo “presso” Maria: è Lei che Lo custodisce e Lo dona a coloro che Lo cercano. La missione di Maria, oggi, si prolunga attraverso la Chiesa, di cui l’umile Vergine di Nazareth è Madre, Maestra e Modello.
Se abbiamo “scoperto” e incontrato il Signore, nella Chiesa e nelle vicende della nostra vita, anche quelle marcate dalla sofferenza, possiamo sperimentare alcuni “effetti-del-Natale” – vissuto nella fede – che cambiano la nostra esistenza e la rendono davvero “cristiana”. Ci limitiamo a citarne quattro, sulla base dei testi biblici proclamati in questa liturgia.
Il primo “effetto” è l’essere attraversati da una luce, che viene da Dio e mette in fuga le “tenebre”, cioè le oscurità provocate dal male. Il tema è anticipato nella prima lettura di questa liturgia: « il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1). L’annuncio dello splendore, che avvolge i pastori (cfr. Lc 2,9), appare centrale nella pagina evangelica che è stata annunciata. Gesù è il Verbo (cioè la Parola eterna ed infinita del Padre) che si è fatta uno di noi: in Lui ci è data la Verità tutta intera, su Dio e sull’uomo. In questa Sapienza impariamo a capire “chi è Dio per noi” e “chi siamo noi per Dio”. In tale orizzonte evangelico, possiamo cogliere anche il valore fondamentale degli altri: resi sono nostri fratelli in Gesù e candidati ad essere nostri compagni di viaggio verso la santità. Infatti, dal giorno di Natale, nel Dio-fatto-uomo siamo tutti chiamati a diventare “perfetti” nella comunione (cfr. Gv 17,23): come in cielo così in terra!
Un secondo effetto è l’essere progressivamente riscattati dalle situazioni che ci opprimono interiormente, rendendo opaca e amara la nostra esistenza. Questa solenne promessa, che riecheggia nel profeta Isaia, vale per il popolo credente come per ogni suo membro: «Tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino» (Is 9,3). Chi accoglie Gesù diventa in Lui “libero”, perciò capace di vincere le subdole suggestioni dell’errore e pronto a vivere secondo la volontà di Dio in ogni circostanza
Un altro effetto è il graduale conseguimento dell’autentica “coerenza” cristiana e la conquista della maturità ecclesiale, perché, come dichiara l’apostolo Paolo, «è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà» (2 Tt 2,11-12). E il “sì” detto a Dio – “con” Maria e “come” Maria – ci rende «un popolo puro», che appartiene al Signore, e perciò «pieno di zelo per le opere buone» (ibid., v. 14). E solo un popolo “nuovo” può rendere “nuova” (quindi: vera, buona e bella) la storia che vive e che fa.
Infine, c’è la “sorpresa” di scoprire la Sorgente della gioia e della pace, che lo Spirito accende nel cuore dei fedeli: “fiamme” divine destinate ad ardere su tutta la terra. Gioia speciale, quella che viene da Dio, perché rimane sempre, qualunque cosa accada; così pure la pace, che dona il Vangelo, non è fragile e intermittente come quella che viene dal mondo: non si tratta, perciò, di un “sereno variabile” nel cielo dell’anima, ma consiste in una serenità permanente che resta salda, nonostante le “intemperie” della vita. Infatti è pace non “senza” problemi ma “nei” problemi, perché li rende amore. In questo modo, anche le “situazioni-contro” vengono trasformate in “situazioni-pro” nella navigazione della nostra storia.
Lasciamo, dunque, che Dio moltiplichi nei nostri cuori la letizia (cfr. Is 9,2): facciamo Natale, accogliendo Colui che ci è dato come «Consigliere mirabile, Dio potente,
Padre per sempre, Principe della pace» (Is 2, 5).
Stasera innalziamo una preghiera speciale per tutti coloro che soffrono a causa del coronavirus, perché sono stati infettati o perché hanno famigliari contagiati. Affidiamo alla misericordia del Signore quanti hanno perso la vita a causa della pandemia. Assicuriamo il sostegno pieno e grato a quanti combattono questa calamità sanitaria e sociale. Una solidarietà convinta e fattiva vada alle persone che sono state gravemente danneggiate nelle loro attività professionali ed economiche.
L’augurio fatto a tutti è che diventiamo – in parole ed opere – un’eco fedele dell’Inno di Natale, quello intonato dal coro degli Angeli nella notte luminosa di Betlemme: «gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2, 14).
A ciascuno un fraterno abbraccio nel Signore: “l’Alfa e l’Omega, Colui è, che era e che viene, l’Onnipotente!” (cfr. Ap 1,8). Amen!
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