“Quella era la mia casa”


L’Aquila – Da Paola Bellisari riceviamo: “Ero una privilegiata. Ero privilegiata perché abitavo a “i Quattro Cantoni”, in un appartamento meraviglioso con le finestre su Corso Umberto e Piazza Palazzo.
Ero privilegiata perché avevo persino un bel giardino lungo Via Accursio e, quando la mattina uscivo ad annaffiare i fiori, sentivo le voci del cuore della città e l’odore caldo e fragrante del pane del vicinissimo fornaio in Via Patini, il più affollato della città e dintorni. Ed ero privilegiata perché quel pane potevo comprarlo un momento prima di sederci a pranzo, senza trovare la fila.
Quella casa era stata fantasticata e sofferta: ho passato tanti anni ad immaginare come ristrutturarla; poi tanti anni a ristrutturarla, spendendo un patrimonio e consumandomi di dubbi sulle rifiniture, le tende, la boiserie, le maniglie…ogni particolare era frutto di studi capillari e dubbi amletici. Il risultato però, raggiunto alla fine del 2003, è stato straordinario. Ero orgogliosa di essere riuscita ad esaltare la bellezza di quella casa di famiglia, godevo della gioia di viverci e di farci vivere, felici, i miei figli. Mio marito ne era talmente fiero da sottoporre ogni ospite a visite guidate!
Quella casa era il mio mondo e stava al centro del nostro mondo: da lì guardavamo, con i tanti amici, l’accensione del fuoco di Celestino e lo splendido spettacolo di luci sulla torre di Palazzo; da lì restavamo incantati a guardare la neve attraversare piano il quadrante luminoso dell’orologio della torre ed ammantare con delicatezza la statua di Sallustio; da lì guardavamo processioni e cortei.
Da lì la spesa in Piazza, tutti i negozi a portata di mano, i facili incontri per strada, i caffè, le chiacchierate, la Fiera della Befana.
Da lì sentivamo i rintocchi di quell’orologio che hanno scandito sempre le ore della mia vita: da alunna del Convitto, mi avvertivano che stavo facendo tardi a scuola (eppure era di fronte!); poi, al Liceo, misuravano momenti di ansia per la criptica versione di greco o l’interrogazione di matematica; poi, ritrovato come compagno quotidiano delle mie giornate, i suoi rintocchi segnavano ore serene, non più vissute con ansia, le ore appagate di chi aveva conquistato l’obiettivo di vivere e per sempre in quella casa tanto ambita e tanto amata….
Quell’orologio si è fermato alle 3.32 del 6 aprile e con lui si è fermata la mia vita.
Ero una privilegiata e dal 6 aprile sono una sfollata.
Dovrei essere contenta perché siamo tutti vivi e perché ci hanno dato una casa antisismica sostenibile (che vorrà dire?) ed ecocompatibile. Certo che sono strafelice di essere viva con tutta la mia famiglia, ma non riesco ad essere contenta: il terremoto ha sottratto la mia vita, togliendomi la mia casa e la mia città, strappandomi le piacevoli abitudini, il vivere facile, il ruolo, l’identità. Il 6 aprile è stata la fine del mio mondo: svuotata, sbandata, senza più punti di riferimento, senza alcuna certezza, incapace di immaginare un domani accettabile. Il terremoto mi ha catapultato lontano dalla città, in uno dei 19 dormitori: mi chiedo se quella casa affrescata con giardino nel cuore di una città brulicante di gente sia un ricordo o fosse piuttosto un sogno.
La mattina ci muoviamo come automi da queste casette tutte uguali per raggiungere un luogo di lavoro che si trova puntualmente nella periferia opposta. Traffico e distanze da metropoli. Vite isolate in una periferia priva del centro e dunque priva di senso, come un satellite che gira a vuoto, orbo del suo pianeta.
Nell’altra vita bastava uscire e si incontravano amici in Piazza Duomo, sotto i portici, ai Quattro Cantoni: ora gli incontri casuali sono solo nei centri commerciali. Nell’altra vita si andava a piedi ovunque: ora solo in automobile, da un alveare del progetto CASE ad un nucleo industriale. Non abbiamo più i vantaggi, le piacevolezze della piccola città e abbiamo solo i disagi della metropoli senza avere più neppure una parvenza di città. Sono difficili anche i rapporti con gli amici: molti si sono trasferiti; quelli di loro che stanno nelle casette si trovano in “quartieri” lontani; quelli di loro che hanno la fortuna di vivere in casa propria non si rendono conto di tanta buona sorte e non aprono le porte a chi -prima- le teneva sempre spalancate a loro.
Questa vita non ha alcun punto in comune con quella precedente e non possiamo farci nulla fin quando la città, i suoi palazzi, i suoi portici, i suoi negozi non torneranno a vivere. Ma allora sarà finita la mia vita”.


09 Aprile 2010

Categoria : Dai Lettori
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